Qui ed ora

Bruno Vespa ha presentato Salvuccio Riina con un appellativo che non lasciava spazio a dubbi o a pietà: un mafioso, figlio del capo dei capi della mafia Totò Riina, e a sua volta condannato per associazione mafiosa.

Le domande scomode l'ha poste tutte e secondo la miglior regola del giornalismo: a domanda libera segue risposta libera. All'intervista sono seguite durissime polemiche e nessuna analisi approfondita. Eppure ha alimentato un dibattito sulla mafia come non succedeva da anni. Aneliti di moralismo che solo Vespa riesce a suscitare.

Si scende in campo contro la mafia solo per gridare allo scandalo di fronte a eventi come questo ma nei fatti di uomini coraggiosi se ne vedono pochi e rimane tutto esattamente com'è. Il mafioso ha descritto la sua infanzia confermando tutte le analisi psicopatologiche svolte sulle famiglie mafiose. Il figlio è un suo clone, non dimostra nessuna autonomia di pensiero, capacità di critica e d'individuazione sono completamente assenti. Sul suo volto immobile sono comparse rare emozioni. Era concentrato con tutta la sua energia a non lasciare trasparire nulla in nome di quel segreto inviolabile cui è stato costretto sin da bambino.

Per Riina junior esiste una separazione netta tra la sua famiglia e la società. È stato addestrato all'obbedienza assoluta, ha ricevuto un training mafioso fatto di violenza e omertà. Una coercizione psichica che l'ha reso anaffettivo e privo di capacità di giudizio. Il padre amorevole, che secondo lui merita devozione e rispetto e che tanto lo ha amato, ha fatto di lui e dei suoi fratelli degli alienati dall'umanità. Bambini che non hanno frequentato la scuola e non hanno conosciuto altro che la famiglia e la regola mafiosa, è molto difficile possano emanciparsi o sperare in un'altra e più autentica identità. L'Antimafia invece di inveire contro un giornalista che facendo il suo lavoro ha realizzato uno scoop, avrebbe dovuto sfruttare l'occasione per interpretare i messaggi mafiosi che questo novello scrittore ha voluto mandare dentro e fuori dalle carceri siciliane, perché di sicuro non cerca la notorietà di Camilleri. Comprenderlo vorrebbe dire scoprire e prevenire quello che bolle in pentola e magari assestare alla mafia un colpo in più.

Loro sì, inquirenti e antimafia, dovrebbero agire nel silenzio, perché sono loro a dover indagare, mentre al giornalista spetta il compito di portare alla luce personaggi ed eventi che contro ogni censura devono essere sottoposti al giudizio della pubblica opinione.

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