«Avevamo ragione noi del Pd, a Rende non c'è nessuna infiltrazione criminale». Questa frase rischia di costare carissima a Rosy Bindi. Il presidente della commissione Antimafia, infatti, è stata sbugiardata dall'inchiesta della Dda di Catanzaro che ha decapitato il Comune calabrese e messo ai domiciliari cinque politici rendesi, tra i quali l'ex sottosegretario e ex assessore regionale Sandro Principe, collega di partito della Bindi e grande sponsor del governatore Mario Oliviero. Principe è accusato di aver ricevuto il sostegno elettorale della cosca di 'ndrangheta Lanzino e di aver fatto lavorare alcuni mafiosi nelle coop del Comune.
A questo punto sembra inevitabile che il Viminale commissari Rende. Qualche anno fa, quando le prove del pesante condizionamento della 'ndrangheta negli affari del Comune cominciavano ad emergere, il dossier Rende finì al Viminale. Allora qualcuno disse che il ministro dell'Interno Angelino Alfano aveva ricevuto pesanti pressioni per non sciogliere Rende, considerato il laboratorio politico del centrosinistra calabrese. E infatti il «no» del Viminale allo scioglimento per mafia venne accolto con giubilo dalla Bindi. Che il 26 settembre 2013, qualche giorno prima di essere scelta alla guida della commissione Antimafia, firmò un documento che recitava: «I rendesi potranno tornare alle urne con la certezza che la mafia non è mai entrata nelle stanze del Comune. Il Pd da sempre sostiene la forza della tradizione democratica di Rende, modello ultradecennale di buon governo».
Una bella figura di palta. La nota è firmata da tutta la deputazione Pd calabrese, compresa la collega della Bindi in Antimafia, Enza Bruno Bossio, e il segretario regionale Pd Ernesto Magorno.
Ironia della sorte, l'altro giorno la Bindi dov'era? A Rende, a parlare di Costituzione e lotta alla mafia. Ma anziché sposare in toto la documentatissima inchiesta della magistratura che ha scoperchiato il verminaio Rende, la Bindi ha sfoderato il bizantinismo che ha imparato sui banchi della Dc: «Questo territorio è stato investito da un'inchiesta giudiziaria pesante. Al momento non abbiamo ancora come Commissione tutti gli elementi per esprimere un giudizio sulla vicenda Rende, ma vi assicuro che li acquisiremo e non mancheremo di fare la nostra parte, come abbiamo fatto per ogni vicenda che si è aperta in questo Paese».
Una frase che agli inquirenti è suonata a dir poco stonata, anche se poi la Bindi ha provato a correggere il tiro: «Quando hai preso i voti della mafia la tua libertà di politico è finita». E ancora: «Calabria e Mezzogiorno sono anche orfani di una classe dirigente perbene».
Verissimo.
Infatti tra gli eletti in Calabria, oltre alla veneta Bindi c'è anche l'ex commissario regionale Alfredo D'Attorre, tornato a Roma non prima di autoattribuirsi il seggio.Che cosa farà la Bindi adesso? Basterà un mea culpa per aver difeso un Comune infiltrato dalla 'ndrangheta?
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