Lunedì scorso, mentre Borse e Btp crollavano e il Paese precipitava in una crisi istituzionale mai vista, gli unici che avevano da rallegrarsi erano i vertici della Cdp e di Mps. Per i due big finanziari controllati dallo Stato il tramonto del governo gialloverde, con l'arrivo di uno come Carlo Cottarelli, avrebbe significato conferma sicura. O meglio: per Monte dei Paschi lo scampato pericolo di licenziamento; per Cassa Depositi e Prestiti, i cui grandi capi sono in scadenza con le assemblee già fissate il 20 o 28 giugno, la probabile riconferma o quantomeno una bella proroga. Invece niente: il ritorno dei pentaleghisti cambia di nuovo tutto.
Luigi Di Maio, vice premier e ministro Sviluppo/Lavoro in pectore, ha indicato la strada già lunedì, quando a proposito delle nomine pubbliche ha detto: «Tra pochi giorni avremmo proceduto alle nomine di servizi segreti, Rai e società partecipate dallo Stato. Ma hanno temuto che gli togliessimo la mangiatoia». Detto, fatto: mangiatoia a parte, le nomine saranno presto nel pieno potere del nuovo governo. Parliamo di gangli di potere reale del Paese: potere economico per le società partecipate; potere mediatico; sicurezza nazionale. In ballo ci sono circa 350 incarichi, tra consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società controllate dal Mef e i vertici dei servizi. Tra questi, alcuni sono importanti per il solo peso specifico che hanno. Altri, pur essendo in società minori, hanno una valenza decisiva nelle formazione delle reti e nelle geometrie che il potere disegna avendo a disposizione poltrone, ruoli, deleghe, stipendi.
Ma tra le grandi spa di Stato spiccano senz'altro Cdp e Mps. In realtà ci sarebbero state anche le Fs. Ma a fine anno, a Camere già sciolte, il governo Gentiloni ha confermato per 3 anni il cda guidato dal renzianissimo Renato Mazzoncini. Un blitz in piena regola, andato in porto. Che però non si poteva certo replicare.
La Cdp, oltre a controllare le quote di riferimento di centinaia di spa, tra cui Eni e Poste, è la società che gestisce i 250 miliardi del risparmio postale, dei quali 80 già investiti e 170 a disposizione. Una potenza di fuoco che fa gola a M5s da tempo, con l'idea di schierare Cdp nelle partite del Mezzogiorno o nella nazionalizzazione dell'Alitalia attualmente commissariata. Per questo appare inverosimile che il presidente Claudio Costamagna e l'ad Fabio Gallia restino al loro posto. Il primo, ancorché indicato per statuto dalle Fondazioni (che sono soci di minoranza del Mef), è stata una nomina super renziana. Difficile che i gialloverdi si possano fidare di lui, per di più ex Goldman Sachs, sorta di marchio demoniaco. Non a caso, qualche tempo fa, è stato Costamagna stesso ad anticipare alla prima linea dei suoi manager che non sarebbe rimasto lì. Quanto a Gallia, che è il numero uno operativo, banchiere pure lui, segue le sorti di Costamagna.
Per quanto riguarda la successione, le Fondazioni possono far valere lo statuto e nominare un presidente meno invasivo di Costamagna (circola il nome di un prodiano, ex Mef e Mps come Massimo Tononi); oppure giocarsela insieme con altre partite con i nuovi inquilini del Palazzo. Mentre per il ruolo di ad la soluzione interna potrebbe accontentare M5s e Lega: l'attuale direttore finanziario Fabrizio Palermo ha lavorato bene su tanti dossier, tanto che i numeri migliori di Cdp emergono più nella gestione finanziaria che nelle performance industriali. Dalla sua, inoltre, ha ottimi rapporti con il forte numero uno di Poste, Matteo Del Fante, e ha pure avuto modo di farsi apprezzare dagli amministratori di M5s in un'operazione tra Open Fiber e Acea (controllata dal Comune di Roma).
La partita
Mps non è all'ordine del giorno. Ma il nuovo Mef di Giovanni Tria potrebbe voler rinegoziare con la Bce il futuro della banca per toglierla dal mercato. In questo caso la sorte dell'attuale ad Marco Morelli sarebbe segnata.
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