Roma Il timer è partito. Lunedì, secondo le anticipazioni, la Corte di Cassazione dovrebbe dare il via libera al referendum confermativo sulla riforma costituzionale, sancendo che le firme raccolte dal fronte del Sì (e fallite da quello del No) ci sono e sono valide. Poi la palla passerà al governo, che deve decidere quando convocare la consultazione.
Scelta difficile, perché dall'esito della consultazione dipendono le sorti del governo Renzi, e degli equilibri politici del Paese. Per questo in molti, a cominciare dal presidente Mattarella, hanno suggerito al premier di rallentare la corsa, e fissare la fatidica data dopo aver messo in sicurezza la legge di Stabilità, almeno in un ramo del Parlamento. Le date più gettonate sono le domeniche tra il 13 e il 27 novembre, con le maggiori chance per il 20. Sarà un Consiglio dei ministri, probabilmente ai primi di settembre, a fissare la scadenza.
La minoranza del Pd parte in quarta, dando l'ultimatum a Matteo Renzi: o cambi la legge elettorale come piace a noi, oppure votiamo no. È Roberto Speranza (che in Parlamento ha votato sì alla riforma Boschi, che ora vuole far bocciare) a minacciare dalle colonne di Repubblica: «Basta ammiccamenti o segnali di fumo. Chiedo un'iniziativa politico parlamentare». Se l'Italicum dovesse restare fino alla data del referendum «non sarei in condizione di votare sì». Subito arrivano a fargli da spalla i senatori Pegorer e Fornaro, che dopo aver giurato che «la minoranza Pd non si comporta come un partito nel partito», ribadiscono che - senza abolizione dell'Italicum - «non potremmo che trarne le conseguenze al referendum».
Lo strappo era annunciato da tempo: dopo l'esito delle amministrative, la minoranza Pd - ringalluzzita dalla mezza batosta del Pd - ha annusato la possibilità di arrivare allo scontro finale con Renzi, e di liberarsene prima di un congresso che difficilmente vincerebbero, e soprattutto prima che sia lui a fare le prossime liste elettorali, e a decidere delle loro candidature. La questione della legge elettorale è il pretesto per poter giustificare la giravolta contro la riforma da loro stessi votata, e passare al fronte del No. Renzi aveva sperato di evitare la spaccatura del partito, facendo vaghissime aperture sull'Italicum, e aveva ricevuto rassicurazioni in proposito dal fronte bersaniano. Ma il tentativo di tregua, duramente osteggiato dall'ala dalemiana, è fallito.
E così, mentre il fronte del No si organizza e i Cinque Stelle annunciano un tour agostano contro la riforma (con tanto di «importante iniziativa in alta quota sulle Dolomiti» del giulivo Alessandro Di Battista), il partito del premier appare spaccato e in piena guerra civile. La reazione dei renziani all'insurrezione della minoranza è allarmata: «Votare No è un suicidio politico, al solo scopo di fare dispetto a Renzi», dice il capogruppo Ettore Rosato. «La minoranza dem pensa solo a un eterno congresso di partito», denuncia il senatore Andrea Marcucci.
Il premier, ben sapendo che Italicum e riforma sono solo un pretesto («Il loro unico scopo è far saltare me e il governo», dice), non ha intenzione di prestarsi al gioco. «Non vedo alcuna urgenza di cambiare l'Italicum. Ci presentino proposte congrue, e con i numeri sufficienti in Parlamento, e faremo la nostra parte», taglia corto il vicesegretario Lorenzo Guerini.
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