Roma. «In Viale Mazzini ci giocano i bambini» cantava oltre trent'anni fa Renato Zero. Da ieri potranno continuare a giocare con la televisione di Stato anche star, starlette e amici degli amici di vario genere. Il decreto Milleproroghe, bollinato dalla Ragioneria generale dello Stato, posticipa di un anno - al primo gennaio 2018 - «gli effetti dell'inclusione della Rai nell'elenco dell'Istat delle pubbliche amministrazioni».
L'istituto centrale di statistica a fine settembre aveva, infatti, inserito a sorpresa la tv pubblica nel perimetro della Pa. Non si trattava di nessuna vendetta politica trasversale, ma di una esplicita richiesta dell'Europa che lo scorso agosto aveva imposto di considerare «pubbliche» tutte le tv di Stato per le quali la pubblicità non coprisse più di metà dei ricavi. Ed è proprio il caso di Viale Mazzini giacché nel 2015 (ultimo bilancio disponibile) il canone ha portato oltre 1,6 miliardi di introiti a fronte dei soli 535 milioni garantiti dalla réclame.
Subito il direttore generale Antonio Campo dall'Orto e il presidente Monica Maggioni erano andati nel panico più totale. Non tanto temendo per i loro stipendi (rispettivamente 650mila e 270mila euro) che sono già messi al riparo dal tetto dei 240mila euro per il fatto che, essendo la Rai un'emittente di titoli quotati grazie a un bond da 350 milioni di euro, è già esclusa dal tetto di 240mila applicato alla Pa. La scelta dell'Istat, però, avrebbe obbligato la televisione pubblica a comportarsi come un qualsiasi ministero. Dunque, assunzioni per concorso, innanzitutto. Poi, gare di appalto per ogni singola fornitura come un qualsiasi Comune di provincia e niente più acquisti di mezzi e servizi all'occorrenza. Inoltre, la mannaia della spending review, ove applicabile, si sarebbe abbattuta su consulenze esterne e prestazioni d'opera. Ultimo ma non meno importante, quattro consiglieri di amministrazione su sette sono in pensione e nella Pa ai pensionati che svolgono tali funzioni non tocca nemmeno un euro.
«Non potremo più competere con Mediaset e Sky», si lamentò Campo dall'Orto che subito diede il via a una campagna di lobbying a tappeto sia a Roma che a Bruxelles per salvaguardare lo status quo dell'azienda. Il consigliere di amministrazione Franco Siddi si stracciò invece le vesti perché «non si potranno più comperare i droni». Così «si taglierebbe fuori la Rai da qualsiasi possibilità operativa reale e significativa», fece eco Maggioni. Superstar come Carlo Conti, Fabio Fazio e Antonella Clerici avrebbero dovuto vedere il loro compenso praticamente decimato. Ecco perché nello scorso novembre il supermanager targato «Leopolda» inventò uno stratagemma: il tetto di 240mila euro si applica subito, appena entrata in vigore la legge per l'editoria, a tutto il personale dipendente oltre che a collaboratori e consulenti con rapporti assimilabili a quelli di lavoro dipendente. Per i contratti di natura artistica si chiese il responso del ministero dell'Economia. Con il ritmo da plantigrado che di solito impera a Via XX Settembre, Campo dall'Orto confidava di infilare nella legge di Bilancio un emendamento ad hoc che bloccasse tutto. Poiché la manovra è stata «congelata» dalle dimissioni di Renzi, il partito trasversale della Rai ha avuto la sua giusta soddisfazione nel Milleproroghe, con buona pace di quei tentativi bipartisan di moralizzare un minimo costumi e malcostumi.
Alla fine rimane sempre l'eterno quesito irrisolto che riguarda Viale Mazzini.
Se la Rai non fa parte della pubblica amministrazione, perché si chiede ai cittadini di versare l'equivalente di una tassa per fruire di questi servizi radiotelevisivi a volte non richiesti? Se, invece, la Rai fa parte della Pa, giacché politici e non si incaricano di definirla «servizio pubblico» perché non si può mettere in discussione oltre un miliardo di spese per dipendenti e soubrette?
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