Le regole del vestire, una lezione anche a scuola

Foto d'archivio
Foto d'archivio

È giusto, vista l'afa, entrare a scuola (o in ufficio, è la stessa cosa) in short, canottiera, gonne corte o infradito? Lecito forse sì. Appropriato, non del tutto. La libertà personale dovrebbe essere, in casi simili, pressoché assoluta. Lo stile e una moderata eleganza, anche. La forma è sostanza. E non solo in letteratura.

Il caso è partito pochi giorni fa da una scuola di Schio, Vicenza, all'Itis «De Pretto», dove la Preside ha diramato una circolare per richiamare ragazze e ragazzi a un certo decoro nell'abbigliamento durante le lezioni - cioè a indossare «pantaloni lunghi e gonne al ginocchio» - con conseguenti note sul registro per chi non si adegua. Della cosa se ne è subito parlato in altri istituti, sui giornali, nelle famiglie. Da una parte c'è chi pensa che il problema non sia come vestano i ragazzi, ma il livello di istruzione e dei servizi offerti dalla scuola italiana. Dall'altra chi è convinto che l'educazione al comportamento nelle diverse circostanze - un conto è la spiaggia, un altro l'aula - non sia secondaria per una buona istruzione di base.

Ogni volta che si accorciano i centimetri di stoffa, si allungano le polemiche. Alcuni studenti dell'istituto di Schio si sono persino appellati al diritto alla salute (essere troppo coperti quando fa molto caldo può creare problemi fisici...) e alla Dichiarazione universale dei diritti umani (la famosa libertà dei costumi...). La preside ha invitato i ragazzi a distinguere: un richiamo a una maggiore cura nel vestiario anche in giornate di alta temperatura, non è propriamente una forma di tortura o censura. Ma non è bastato. Gli studenti si sono divisi, come abitudine, tra diligenti conformisti e simpatici ribelli. E gli adulti, come sempre, tra inflessibili conservatori ed eterni contestatori. In mezzo è rimasto il buon senso.

Insegnare i modi della civiltà, anche attraverso l'abbigliamento corretto in classe, non è una «ipocrisia anacronistica», come hanno scritto alcuni studenti. Ma un dovere della scuola. È una materia strana, che sta tra la filosofia e la storia dell'arte, e si chiama «Stile» (e non staremo a tenere una lezione sullo stretto rapporto tra Estetica ed Etica, ciò su come la Bellezza sia generatrice di virtù, e il brutto del Male). Così come dettare delle regole di comportamento, anche in fatto di guardaroba, non lede alcun diritto costituzionale. È solo un altro modo per preparare i ragazzi alla vita adulta, fatta di rapporti di lavoro, obblighi, relazioni sociali e soprattutto - sempre - buon gusto. E sapere come vestirsi, come stare a tavola, come parlare, non è un regolamento da college, semmai una carta vincente (rimane solo un parere di chi scrive: ma tra un inglese «fluente» e il saper abbinare abito e pochette alle diverse situazioni, continuerei a scegliere la seconda dote: mi è servita molto di più nella vita, ndr). Comunque...

Qualcuno a Schio - addirittura - ha porta in aula autorevoli riviste di moda che spiegano come bermuda e t-shirt, in estate, possano essere un dress code consono e rispettoso. «La volgarità e la maleducazione sono un'altra cosa» rispetto a un paio di jeans tagliati male, è vero.

Ma il rispetto per sé e per gli altri (colleghi, compagni, professori), che vale qualcosa in più della semplice moda e dei freddi regolamenti, inizia sempre dallo stile. Cosa cui non bisognerebbe mai rinunciare. Seppure a volte costi qualche fastidioso grado centigrado in più.

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