Otto mesi dopo il voto e le dimissioni di Matteo Renzi, il Pd ancora non riesce a mettersi d'accordo neppure sulla data del congresso che dovrebbe nominare il prossimo segretario. E l'ex premier, apparentemente poco appassionato alla competizione Minniti-Zingaretti, già guarda oltre il vecchio, stanco Pd.
L'Assemblea nazionale che si è riunita ieri a Roma (disertata da Renzi) ha preso atto delle dimissioni del segretario «di transizione» Maurizio Martina, e ha demandato la scelta della data per le primarie alla Direzione: dovrebbero essere fissate tra febbraio e marzo. Il candidato in pole position Zingaretti - e con lui Gentiloni - premono per accelerare, i renziani resistono. «Pensano che più si va in là, più può succedere qualcosa che consenta di far saltare il congresso», denunciano gli zingarettiani. «Qualcosa», ossia una crisi politico-economica che faccia saltare l'attuale assetto di governo: in quel caso, senza una catena di comando chiara nel Pd, sarebbe ancora Matteo Renzi a dare le carte, per evitare una deriva filo-grillina del partito o addirittura avallare - è il sospetto dei suoi avversari interni - una soluzione di centrodestra. L'amletico Marco Minniti ieri non ha sciolto le riserve sulla sua candidatura, ma potrebbe farlo oggi via Repubblica, o nella prevista intervista con Lucia Annunziata su Rai3. Intanto si allunga la lista di sindaci e amministratori locali pronti a sostenerlo: «Ha dalla sua tutti i ras locali, soprattutto nel Sud», dicono i supporter di Zingaretti, che pensa di potercela fare solo «se le primarie si faranno presto e saranno più aperte possibile». Incerto se candidarsi l'uscente Martina, mentre in pista ci sono Richetti, Boccia, Damiano e l'outsider Corallo.
Minniti, alla fine, sarà il candidato sostenuto dai renziani. Ma l'ex premier si guarda bene dal «metterci il cappello sopra», sia perché non vuole che sia identificato come «il candidato di Renzi», e sia perché ha il sospetto che, alla fine della fiera, vinca l'uno o vinca l'altro, i due ex Ds Minniti e Zingaretti troveranno comunque un'intesa tra loro per governare il partito. «Si tornerà comunque al vecchio modello della Ditta, riaprendo le porte alla sinistra scissionista», sospira un renziano.
È proprio il modello Pd a non funzionare più, riflettono da quelle parti, e a non essere più in grado di intercettare consensi oltre l'ormai risicato zoccolo duro del centrosinistra. «Sono cambiati il mondo, l'Europa, l'Italia. Questo Pd non basta più e non funziona più. Dobbiamo andare oltre, fare qualcosa di nuovo e farlo ora», dice Sandro Gozi, convinto sostenitore di un contenitore liberal-democratico e anti-populista alla Macron.
I «Comitati civici» lanciati alla Leopolda sono il primo abbozzo di un disegno che va in quella direzione. «Bisogna lavorare su quello che si muove nella società civile - spiega ai suoi Renzi - nella quale cresce il dissenso e il rifiuto per le follie di questo governo». E non esclude nulla: neppure l'ipotesi di favorire in futuro la nascita di un soggetto elettorale in grado di calamitare quei voti che non andranno mai al Pd. Un soggetto, spiega chi ci sta lavorando, che non dovrà essere «in competizione con i Dem», ma se mai alleato nelle prossime elezioni politiche.
Nulla si muoverà in questa direzione prima delle elezioni europee, che saranno il banco di prova per verificare la residua vitalità del Pd. Dopo, tutto è possibile. Ma senza rotture traumatiche o scissioni: se mai una separazione consensuale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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