«Ci vorrà tempo, sarà difficile, ci saranno intoppi. Ma nessuno potrà più fermare il cambiamento iniziato oggi». Matteo Renzi incassa con soddisfazione il primo sì di Palazzo Madama alla sua riforma del Senato, dopo mesi di sanguinoso scontro.
Il suo commento arriva da Palazzo Chigi, dove il premier è rimasto per tutta la giornata, tra un pranzo con Pier Carlo Padoan, un'intervista con il Financial Times e un incontro con il neodirettore dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Aveva annunciato che sarebbe andato in aula ad assistere al voto finale, e a ringraziare i senatori di maggioranza che sono rimasti per settimane blindati in aula a fronteggiare l'ostruzionismo esasperato e a votare a raffica migliaia di emendamenti; ma giovedì, dopo l'ultima chiassosa bagarre in aula, ha deciso di soprassedere e di «lasciare per intero ai senatori - dice - l'importanza di questo momento». Le opposizioni, Movimento Cinque Stelle in testa, non aspettavano altro che l'ingresso in aula di Renzi per inscenare un nuovo show anti-riforma, profittando della diretta televisiva. Così, per evitare la bagarre, ad assistere al primo, simbolico successo del governo c'erano ieri il ministro Maria Elena Boschi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio.
Un successo reso agrodolce dai numeri, che restano ben al di sotto della maggioranza qualificata necessaria ad evitare il referendum confermativo (che però il governo si era impegnato a tenere comunque) e di soli 22 voti sopra il quorum della maggioranza assoluta, necessaria per approvare i disegni di legge costituzionali. La maggioranza di governo si è fermata a 140 voti, regalando a Forza Italia l'occasione per rivendicare la propria indispensabilità per fare le riforme, e alla fronda interna al Pd un nuovo argomento di polemica. I dissidenti del partito del premier sono stati 16, due astenuti e gli altri non partecipanti al voto. Ma che fosse difficile «far digerire ai tacchini il Natale», come dicono nel Pd, ossia far votare i senatori per la soppressione del Senato, era messo in conto. E alla Camera, visti i numeri della maggioranza, andrà sicuramente meglio. «È chiaro che questa era la spallata più difficile da dare, ora il più è fatto», dice Francesco Russo, segretario del gruppo Pd al Senato. La linea è quella di drammatizzare meno possibile la fronda interna, visto che il no dei soliti Mineo, Mucchetti o Tocci era scontato fin dall'inizio. Diverso il discorso per Vannino Chiti (anche lui ieri ha annunciato che non avrebbe votato il ddl), con il quale lo stesso Renzi ha riallacciato il dialogo durante l'iter turbolento della riforma. E che ha avuto un ruolo, nelle ultime ore, anche nel convincere i «dissidenti» più accesi a non votare contro, limitandosi al non voto.
Per il premier, comunque, è il risultato che conta: e con il primo sì alla fine del bicameralismo Renzi incassa un risultato da esibire in Italia e in Europa, a riprova che il suo governo in soli sei mesi è riuscito a concretizzare impegni tutt'altro che scontati.
Non a caso, nel Consiglio dei ministri di ieri (il prossimo, già fissato per il 29 agosto, dovrà varare il famoso «Sblocca Italia») il premier ha chiesto alla Boschi di illustrare un «monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo», che illustra - numeri alla mano - come il governo Renzi abbia deliberato 26 disegni di legge e 17 decreti legge, di cui 14 già convertiti in legge; 30 decreti legislativi, di cui 24 approvati in via definitiva. Dei provvedimenti varati, 40 sono già pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, di essi, 15 non prevedono ulteriori interventi attuativi. Un elenco pronto per essere sventolato sotto il naso dei «gufi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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