Renzi lascia la segreteria Pd (ma per finta). E si vendica dei 5 Stelle

Il leader dem accusa Gentiloni e Mattarella di non aver voluto le elezioni l’anno scorso e annuncia dimissioni «a orologeria» per dettare la linea antigrillina: niente inciuci, caminetti ed estremisti

Renzi lascia la segreteria Pd (ma per finta). E si vendica dei 5 Stelle

Ventiquattr’ore di silenzio, per digerire la sconfitta e far partire la reazione. Poi Matteo Renzi si presenta, ieri sera, nella sala stampa del Nazareno e le sue parole sono una dichiarazione di guerra. Guerra innanzitutto interna: mette sul tavolo delle formali dimissioni: «è ovvio che io lasci la guida del Pd», dice. Ma non ora: la «fase congressuale» si aprirà solo «al termine dell’insediamento del Parlamento e della formazione di un nuovo governo», cioè tra settimane o mesi. Senza alcuna nomina di «traghettatori» o «reggenti» che verrebbero «scelti da caminetti»: sarà lui, da segretario ancorché dimissionario, a dare le carte e pilotare la complessa fase di inizio legislatura. Dettando subito i paletti politici che intende mettere, e che vengono così segnalati anche al Colle più alto, oltre ovviamente a chi nel Pd coltivasse simili tentazionil: «Mi sento garante di un impegno morale e politico con gli italiani: no al governo con gli estremisti.

Ci hanno definiti come il peggio del peggio: fate il governo senza di noi, se siamo quelli che avete detto. Il nostro posto è all’opposizione delle forze anti-sistema, non diventeremo la loro stampella. Saremo responsabili, sì» aggiunge, e sembra una risposta alle richieste di responsabilità che arrivano dai vertici istituzionali alle forze politiche, ma dall’opposizione». Elenca tre «no chiari», no a «inciuci» (ad esempio sulle presidenze delle Camere), no a «caminetti ristretti di chi immagina il Pd come un luogo di incontro di gruppi dirigenti», e no «agli estremisti», con cui «mai faremo governi». Ciò non toglie, aggiunge lasciandosi una porta aperta, che «diremo dei sì a tutto ciò che serve al Paese», su eventuali scelte istituzionali condivisibili.

È una bomba che esplode fragorosamente nel Pd, dove si premeva e ci si attendeva un passo indietro e si puntava ad un commissariamento della gestione politica. Che invece Renzi rifiuta, con l’obiettivo - spiegano i suoi - di «far capire in modo chiaro che se qualcuno ha in mente di fare un accordo con i Cinque Stelle, questa non è la linea del Pd». Lunedì prossimo è convocata la Direzione, e lì «ci si confronterà», dicono con un eufemismo.

Ma Renzi non va all’attacco solo dei capicorrente e dei caminetti. Senza citarli, esprime critiche pesanti rivolte sia al Quirinale che al capo del governo Gentiloni, l’unico con cui rivendicava di non aver mai litigato. «L’errore principale è stato non capire che si doveva votare nella finestra del 2017, tra le elezioni in Francia e quelle in Germania», dice. Perché allora «l’agenda sarebbe stata la stessa che si è vista in Olanda», quando l’assalto delle forze anti-sistema ed anti-Ue è stato respinto, come anche a Parigi e Berlino. E quell’errore, fa capire tra le righe ma non troppo, non è certo di chi come lui quelle elezioni le chiedeva, ma di chi non le ha concesse, ossia il Colle. «Non abbiamo colto quell’opportunità», si è voluto andare avanti con il governo Gentiloni e con un profilo troppo «tecnico», che non aveva abbastanza «anima».

E così «il vento estremista questa volta non siamo riusciti a fermarlo», come invece fu nelle Europee del 2014. Poi addita a «simbolo» di questa sconfitta il caso Pesaro, dove «un ministro straordinario come Minniti», che ha saputo «cambiare il segno» all’emergenza immigrazione, è stato battuto da «un candidato che gli stessi Cinque Stelle definivano “impresentabile”, che è scappato dalla campagna elettorale ma è riuscito ad avere lo stesso la meglio».

Una volta fatto, se si farà, un governo, assicura Renzi, «farò il senatore semplice di Firenze». Ma nel Pd dovrà aprirsi «un confronto vero, che porti ad un congresso risolutivo», con un leader scelto «dalle primarie». Non si candiderà, assicurano i suoi. Ma di qui ad allora chissà.

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