Dice: «il Pd sia a fianco dei poveri e dei disoccupati, delle periferie e degli emarginati». Facile, quando a Roma (non solo a Roma) ti votano soltanto i ceti privilegiati che abitano in centro. Matteo Renzi, che lo sa, sa anche di non poterci fare granché. Se non puntare sulla sua arma vincente, quello in cui riesce meglio: la comunicazione mediatica. Sa anche, il premier, di essere accerchiato. Nel partito e nel governo, dove Ncd e Ala sono in procinto di subire la calamita di un nuovo centrodestra unito. Ma la soluzione, per Renzi, si condensa in una parola d'ordine sola, categorica e impegnativa per tutti: vincere. Il referendum, naturalmente.
La contesa con Beppe Grillo pare aver impressionato molto Matteo. Al punto da capire che «oggi incarnano il cambiamento» e ammettere che «il primo Renzi li avrebbe votati». Da questi due pilastri nasce la mini-rivoluzione al Nazareno, poggiata anche su un principio assai più prosaico: la necessità di chiamare tutti alle proprie responsabilità, di non rimanere da solo nel bunker assieme a pasdaràn e donne del Capo. In questo senso, la chiamata in «correo» trasformerebbe la segreteria in una specie di «Direttorio» allargato a personalità di peso (sempre che accettino). Si lavora al nome di Fassino (second best: inviarlo commissario a Napoli), dei ministri Martina e Franceschini, quest'ultimo per nulla entusiasta dell'idea. Così come alcuni dei governatori o sindaci, che avrebbero il doppio compito di anticipare nel partito quel «doppio incarico» previsto per loro nel nuovo Senato secondo la riforma e consentire quindi al Pd di riprendere «contatti con il territorio», diventandone «cinghia di trasmissione». Interpellati Bonacini (Emilia) e Rossi (Toscana), a quel che risulta non ancora Zingaretti (Lazio), che però sembra voler mantenere mani libere. Il concetto chiave, chiarito da fonti di minoranza in Transatlantico, è: «Renzi, Boschi e Lotti possono pure andare a sbattere, il punto è che non trascinino il Pd con loro...». A coordinare il lavoro un fedelissimo, Luca Lotti, e il «vice» superstite, Lorenzo Guerini. Partenza accelerata invece per la Serracchiani, che deve tornare a occuparsi di Friuli, visti i risultati di Trieste. Addio anche a Ernesto Carbone: «sono finiti i tempi del ciaone», dicono nello staff sospirando su quelle fughe in avanti «così poco inclusive e tanto arroganti». Ma se il partito, ricomposto secondo il piano di Renzi, dovrebbe marciare compatto come falange verso il referendum, armata brancaleone sembra la maggioranza di governo, nella quale si sfilacciano componenti di centro. Una ventina di senatori di Ncd e Ala sarebbero pronti a votare contro il governo per convincere il premier a modificare l'Italicum. Sacconi mette in relazione questo «riformare le riforme» con la permanenza al governo, mentre la componente di Schifani subisce il fascino di un centrodestra «modello Milano». Beppe Esposito spinge il mirino più in alto, puntando direttamente alle dimissioni di Angelino Alfano, «leader ricattabile».
Quella dell'Italicum è però una partita che potrebbe essere risolta dalla Consulta, che presto dovrà giudicare sulla sua costituzionalità: assai dubbia, ammettono adesso i renziani. «Renzi lascerà fare il lavoro sporco alla Consulta», esemplifica il leghista Calderoli non andando lontano dal vero. Così da far ritenere l'ultimatum posto ieri dalla minoranza di sinistra: o cambi l'Italicum o avremo le mani libere, la solita minaccia a salve.
«Umiltà, umiltà», predica l'ex leader Bersani, ricomparso in Transatlantico e, quasi certamente, pronto al ritorno in Direzione. Considerato che lo slogan urlato dai grillini è «onestà, onestà» la sfida è perfetta. Su virtù cardinali.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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