C'è Matteo Renzi che attacca Gentiloni (che reagisce con un «imbarazzante»), c'è Nicola Zingaretti che attacca Renzi e c'è Roberto Giachetti che attacca tutti: «Vi siete messi d'accordo per non scegliere nulla e lasciare il Pd appeso finché non si decide chi vince il congresso. Un errore imperdonabile, forse fatale».
L'Assemblea nazionale dei Dem si conclude come previsto, con Renzi che si riprende la scena, con l'elezione a segretario pro-tempore di Maurizio Martina (solo 7 contrari e 13 astenuti) e con l'impegno non scritto a convocare congresso e primarie per fine febbraio, un paio di mesi prima delle elezioni europee. Fino ad allora, il principale partito di opposizione resterà «appeso», senza una leadership pienamente legittimata e senza una linea netta sull'opposizione. Anzi, con due linee divergenti: Renzi è stato chiarissimo nel ribadire le ragioni per cui «ho combattuto come un leone» contro le ipotesi di accordo con i Cinque Stelle, che definisce ormai «la vecchia destra», una «corrente» di quel partito salviniano che «si allea con i nostri avversari in Ue e trasforma l'Italia in una provincia dell'impero austro-ungarico di Visegrad Carroccio» e che «ha inquinato la democrazia». Ma c'è un'area vasta del Pd che invece è convinto che si debba fare sponda con i grillini per staccarli dalla Lega. «Bisogna disarticolare il fronte avversario», teorizza Zingaretti che - al momento - è l'unico candidato segretario in campo.
Nulla di più lontano dall'analisi renziana: l'ex segretario parla per primo, nella sala dell'Ergife a Roma. Sulla carta, è perché deve formalizzare le dimissioni date nell'ormai lontano marzo, ma in pratica il suo intervento è una sorta di relazione introduttiva all'assemblea, e un manifesto politico. Il piglio non è quello remissivo dello sconfitto: della debacle elettorale dice di assumersi tutte le responsabilità: «Siamo apparsi come l'establishment, anzi lo eravamo». Ma con le «dieci cause principali» di quel risultato chiama in causa l'intero partito e le sue «divisioni interne», e anche il governo di Gentiloni e la sua «algida sobrietà». «Non abbiamo più dettato l'agenda», dice: sullo Ius soli su cui andava posta la fiducia, sui voucher che non andavano tolti, sui vitalizi fermati in Senato dal Pd. Gentiloni ascolta impassibile, resta seduto quando i delegati si alzano in piedi ad applaudire Renzi, e solo in privato si lascia andare a un duro commento: «Imbarazzante».
Renzi se la prende con Repubblica, che «ci ha fatto inseguire la fantomatica operazione Pisapia». E bastona le tentazioni di inseguire i grillini sui temi sociali, come invece teorizza la sinistra Pd («Del resto per sconfiggere i fascisti sostenemmo anche il governo Badoglio», dice Andrea Orlando): «Se pure ci fossero le risorse, e non ci sono, non sarei mai a favore di reddito di cittadinanza o flat tax, o dell'abolizione della Fornero». Altro che svolta a sinistra: alla platea (che in parte rumoreggia in dissenso) indica tre punti di riferimento «contro il populismo», che della sinistra sono bestie nere: Macron, Merkel e Tony Blair. E a chi dal pubblico lo contesta da sinistra replica polemico: «Ci vediamo al congresso, e lo riperderete». Ai renziani, però, il candidato per ora manca: Richetti o Serracchiani, Scalfarotto o Bellanova non convincono, e Delrio continua a negarsi.
Zingaretti, che punta ad allargare il proprio fronte oltre la sinistra, da Gentiloni a Veltroni a Prodi, gli replica a muso duro: «Ci accusa di nostalgie per i Ds? È una caricatura di chi non ha argomenti e ripropone ricette del passato».
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