Renzi rastrella i partigiani

Bersani, Bindi, Letta, Epifani e Speranza negano la fiducia al governo disertando il voto ma restano isolati. Abbandonati dal resto della fronda, rimpiangono il passato e l'Ulivo

Renzi rastrella i partigiani

La vecchia Ditta è ormai solo un retrobottega, uno scantinato dove si respira rancore, frustrazione, malinconia e un vago orgoglio di chi sta perdendo ogni cosa e si aggrappa a un qualche tipo di superiorità morale. Tutto questo senza il coraggio di affrontare davvero Renzi, di sbattergli in faccia un «no» o di andare via. La Ditta di Bersani, Enrico Letta, di Civati, di D'Attorre, della Bindi o di Fassina non ha votato la fiducia all'articolo uno dell'Italicum. In realtà non ha votato affatto. È rimasta fuori da Montecitorio. Un atto simbolico, dicono. Una fuga, di fatto. Gli anti Italicum un tempo dovevano essere almeno cento, poi sono diventati ottanta, poi sempre di meno. Martedì sera c'è stata una sfibrante riunione della minoranza Pd. Al mattino cinquanta responsabili hanno fatto sapere che non gradiscono molto l'Italicum ma avrebbero votato la fiducia. Alla fine a non votare sono rimasti in trentasei più due (Epifani e Speranza erano tecnicamente in missione). Se si guarda ai numeri sono la minoranza della minoranza Pd. Partigiani in fuga dal renzismo.

Ora però guardate chi sono i resistenti. È una lista di ex qualcosa. Ci sono due ex segretari (Bersani ed Epifani), un ex premier (Letta), una ex presidente del partito (Bindi), un ex capogruppo (Speranza). Quello che rivendicano è che il vero Pd sono loro, gli altri sono impostori o traditori, che si sono venduti all'autoritarismo fascistoide di «Matteostaisereno». È un modo per consolarsi e per non sentirsi rottamati. Al punto che si arriva a ragionamenti che stravolgono il senso dello spirito democratico. Come dice convinta Rosy Bindi non contano solo i numeri. «I voti non basta contarli, bisogna pure pesarli». Renzi magari sta vincendo la battaglia sull'Italicum, ma lo fa senza la crema del partito. Ora il problema è che il renzismo la crema del Pd l'ha già messa da parte. Con la crema e le ciliegine non si governa. Quando c'è da fare la conta su una legge e sulla maggioranza di governo il gesto di spingere il bottone in Parlamento della Bindi vale come quello di Guerini. Non è importante chi lo fa e neppure se lo fai con una messinscena di nobiltà di spirito. Non conta neppure se un tempo nella Ditta ci stavi da padrone. È passato. E il passato non vota. Magari uno si può appellare ai concetti di antico senato romano di auctoritas e dignitas, quell'idea di governare la politica con la forza del carisma e del nome. Ma è un patrimonio che la minoranza della minoranza Pd ha sperperato per mancanza di coraggio. Bersani e gli altri sono diventati gli antirenziani della prossima volta. Ogni volta minacciano di far deragliare il governo, poi si limitano a fare le boccacce o si accontentano di qualche promessa. Non sono credibili.

La realtà è che Renzi ha lanciato un'Opa, un'offerta pubblica di acquisto, sulla Ditta e ha vinto. È entrato nell'azienda e ha fatto fuori il vecchio management e ai dirigenti più in carriera ha detto: o con me o contro di me. Siccome tutti «tengono famiglia» la maggioranza ha scelto di stare con l'uomo nuovo. Finita. Partita chiusa. Quella dei «partigiani» è solo una fuga in agonia. Cosa faranno? Sempre Rosy Bindi ha detto che con il loro non voto è di fatto rinato l'Ulivo. Ricordate? Quello di Prodi. Questo dice tutto.

È una fuga verso il passato. Renzi evoca un futuro incerto ma in qualche modo radioso. I suoi avversari indicano un passato sepolto. Non resta che piangere. Come ha fatto la pasionaria Marilena Fabbri. Ha detto no a Renzi tra le lacrime.

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