
da Roma
Giorgia Meloni ha sempre creduto nel piano di pace di Donald Trump e non ne ha mai fatto mistero. Anzi, lo ha sostenuto anche nei momenti in cui l'intesa sembrava lontana, convinta che alla fine il presidente americano sarebbe riuscito nell'impresa o che comunque quella imboccata dalla Casa Bianca fosse la strada più concreta per arrivare a una pace. Una scommessa che la premier ha vinto e per la quale si è spesa con quello che lei stessa definisce il "lavoro silenzioso e costante dell'Italia, riconosciuto da tutti gli attori in campo". Un'azione diplomatica rivolta soprattutto ai mediatori arabi, con cui la premier ha tenuto contatti ripetuti e costanti. In particolare con l'emiro del Quatar Tamim bin Hamad Al Thani, con cui si è sentita anche mercoledì sera, alla vigilia dell'annuncio di Trump. Ma anche con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, incontrato a Istanbul lo scorso primo agosto dove Meloni ha preso parte a un trilaterale a cui era presente anche il primo ministro del governo di unità nazionale della Libia Abdulhameed Mohamed Dabaiba.
Non a caso, oltre a ringraziare Trump la premier ci tiene a elogiare gli "sforzi cruciali" di Qatar, Egitto e Turchia. Senza la loro mediazione, infatti, l'intesa difficilmente sarebbe arrivata, compromessa in partenza dal radicalismo di una parte dei ministri israeliani e dalle componenti armate di Hamas. Ora loro partecipazione attiva ai prossimi passi del piano di pace sarà fondamentale per costruire un percorso che possa portare ad affrontare anche la questione della Cisgiordania, creando finalmente un quadro più stabile per la regione. È per tutte queste ragioni che Meloni ha sempre sottolineato pubblicamente la necessità che i Paesi dell'area avessero un ruolo attivo nel negoziato tra Israele e Palestina. Ed è su questo fronte che si è mossa, anche grazie a solidi rapporti che la diplomazia italiana (e in alcuni casi anche i servizi) ha con molti Paesi africani, radicati dall'intensa presenza italiana in alcune zone della regione africana. Anche per questo, spiega Meloni, l'Italia è pronta "a contribuire alla stabilizzazione, alla ricostruzione e allo sviluppo di Gaza". Insomma, se ci sarà un'operazione di peacekeeping nella Striscia, il governo italiano è pronto a fare la sua parte con l'invio sul campo delle proprie forze armate. Dai Carabinieri fino all'eventuale richiesta di contingenti militari di Esercito o Aeronautica sotto l'ombrello dell'Onu.
La soddisfazione di Meloni, certo, è soprattutto per l'accordo raggiunto in Egitto sull'applicazione della prima fase del piano di pace, "una straordinaria notizia che apre la strada al cessate il fuoco a Gaza, al rilascio di tutti gli ostaggi e al ritiro delle forze israeliane su linee concordate". Ma è nelle cose che la consideri anche una sua rivincita rispetto a chi in questi mesi ha puntato il dito contro il governo italiano al punto di denunciare alla Corte penale internazionale la premier e i ministri Antonio Tajani e Guido Crosetto accusandoli di essere corresponsabili del genocidio a Gaza. Assecondare chi spingeva per una contrapposizione frontale con Israele, è il senso del suo ragionamento, sarebbe stato controproducente. "La pace si costruisce lavorando e non limitandosi a sventolare bandiere", dice Meloni. Il cui pensiero sul punto lo esprime in modo decisamente più tagliente Giovanbattista Fazzolari.
La posizione che ha tenuto la premier, dice il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, "gli è valsa la delirante accusa di complicità in genocidio" ma "in realtà la rende a tutti gli effetti complice dell'accordo di pace raggiunto". Concetto ribadito a stretto giro dalla sorella Arianna, responsabile della segreteria politica di Fdi: "Complici, sì. Ma della pace in Palestina".