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La riscossa di Bolsonaro. Lula trema al ballottaggio

Il presidente ribalta i sondaggi ed è staccato solo di 5 punti. Incerto lo "spareggio" del 30 ottobre

La riscossa di Bolsonaro. Lula trema al ballottaggio

L'ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva è stato il più votato nel primo turno alle presidenziali brasiliane di domenica, con il 48,4 per cento, ma il presidente in carica Jair Bolsonaro ha sorpreso rispetto alle previsioni, raccogliendo il 43,2. Si andrà dunque al ballottaggio in Brasile, il prossimo 30 ottobre, in quella che si preannuncia come una sfida epica tra uno dei leader più osannati dalla sinistra europea e latinoamericana e il destrorso Bolsonaro, odiato dai media mainstream anglofoni e italioti ma, evidentemente, assai meno dai brasiliani.

È una San Paolo grigia e assonnata quella che si è svegliata ieri dopo un voto che, definire storico, non è azzardato. Nessuna violenza né schiamazzi di festa ma, in un clima invernale, un dato certo: la destra non ha mai ottenuto così tanti seggi alla Camera da quando è tornata la democrazia, nel 1985. Ben 273, garantendosi un'ampia maggioranza sul totale di 513. Non bastasse, il partito liberale (PL) del presidente Bolsonaro ha portato a casa la bellezza di 99 deputati, 23 in più rispetto a oggi, diventando il primo gruppo parlamentare. Trionfo analogo anche al Senato dove, il PL sarà dal prossimo 1° gennaio il partito con il maggior numero di seggi, ben 15, su un totale di 81. Di contro disastrosa la performance del partito dei lavoratori di Lula, il PT, diventato il quinto partito in Senato, anni luce dietro al PL bolsonarista.

La sorpresa della performance della destra e di Bolsonaro ha sorpreso tutti, visto che gli ultimi due sondaggi commissionati dal quotidiano Folha de Sao Paulo e dal conglomerato mediatico Globo, l'Ipec, davano Lula rispettivamente al 50 e al 51 per cento con Bolsonaro dietro di ben 14 punti percentuali. Entrambi erano stati a poche ore dal voto e lasciavano chiaramente intendere un Lula vincente già al primo turno. Invece l'ex sindacalista ha ottenuto appena 5 punti percentuali in più del rivale e appuntamento rinviato al penultimo giorno di ottobre.

Più che la miseria dell'8 per cento di tutti gli altri candidati che erano in lizza domenica scorsa, decisivo per capire chi sarà il presidente del Brasile sino al 2026 è invece quel 20,9 per cento di aventi diritto che l'altro ieri ha deciso di disertare le urne. Sono quasi 33 milioni, un'enormità in un paese dove il voto è obbligatorio. Oltre al cosiddetto voto «envergonhado», ossia il voto di chi ha dichiarato per vergogna o per paura di non votare per Bolsonare, spesso paragonato a Hitler, ha sicuramente inciso sulle rilevazioni demoscopiche sballate anche il fatto che l'ultimo censimento in Brasile risale al 2010 e, dunque, il paese reale non era più rappresentato nei database usati da Datafolha e Ipec nelle loro previsioni. Entrambe però dovrebbero saperlo da tempo, avendo già sbagliato in modo grossolano le previsioni delle presidenziali del 2018.

Una cosa è certa: il gioco è riaperto. Lula è ancora il favorito avendo raccolto sei milioni di voti in più di Bolsonaro, ma quello di domenica scorsa è stato un duro colpo per il suo partito dei lavoratori, il PT, che già preparava una grande festa in Avenida Paulista, il centro finanziario e culturale di San Paolo che, alla fine, si è ridotta a una sorta di funerale. Di contro questo primo turno ha rappresentato una grande boccata di ossigeno per il «bolsonarismo» di cui era invece già stata decretata la morte da gran parte della stampa mainstream. Il grande problema di Lula, anche in vista del ballottaggio, è stato che per tutta la campagna elettorale ha parlato quasi solo della suo passato alla presidenza, tra 2003 e 2010. Solo che il mondo oggi è molto diverso. Inoltre, se i brasiliani si ricordano bene delle sue presidenze «felici», come usa ripetere lui, più ancora rammentano i disastri economici della sua delfina Dilma Rousseff quando, nel biennio 2015 e 2016, il Pil verdeoro crollò del 7 per cento, in quella che fu la peggiore recessione del paese da inizio Novecento.

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