C'è poco da interpretare, da giustificare, sottolineando che il protocollo di valutazione utilizzato dalla rivista inglese Times Heigher Education dia soprattutto valore ad alcuni parametri che appartengono più alla tradizione anglosassone che alla nostra visione umanistica e scientifica della cultura: la nostra università è malata. Su 980 università di 79 nazioni del mondo, solo due italiane entrano tra le prime 200: la Scuola Normale Superiore di Pisa e, sempre di Pisa, la Scuola Superiore Sant'Anna. Immediata e consolatoria presa di posizione: scarsissimi finanziamenti pubblici, tra i più bassi al mondo, per la ricerca e la formazione universitaria. Cosa assolutamente vera. Ma se aumentassero i soldi, dove andrebbero a finire? In una macchina burocratica elefantiaca che non riuscirebbe a gestire in modo virtuoso i quattrini. Soldi buttati. Altra questione, sempre di tipo economico: se è scarso il finanziamento pubblico, quasi assente è quello privato, mentre tutte le grandi università anglo-americane, che sono ai primi posti della graduatoria del Times, godono di copiosi trasferimenti di denaro proveniente da istituzioni private. Le ragioni di questa scarsa disponibilità dei privati a sostenere economicamente l'università italiana dipende dalla struttura organizzativa dei nostri atenei, burocratica e farraginosa, senza una vera autonomia gestionale a fronte di quelli statunitensi che sono fondazioni, quindi amministrativamente molto agili.
Ma poi c'è da chiedersi perché l'impresa privata dovrebbe impegnarsi a sostenere l'università quando questa è scadente sia sul piano della formazione che della ricerca come, appunto, è impietosamente documentato dal Ranking del Times. Più che comprensibile il disinteresse. L'interrogativo che sorge semplice e immediato è cosa mai sia accaduto all'università italiana che annovera nella sua storia centenaria i primi e più gloriosi atenei europei, quelli di Bologna e di Padova. La risposta non è difficile: le nostre università non sono competitive; quindi, come restituir loro competitività? Il cuore dell'università è formato dai docenti. I concorsi per reclutarli continuano, da oltre vent'anni, a cambiare senza risultati apprezzabili sul piano della qualità e della serietà. All'ordine del giorno sono gli scandali di promossi non per meriti ma per parentele, le penalizzazioni di chi, pur bravo, non ha santi in paradiso. Sembra ormai che i nuovi docenti vengano nominati dai tribunali per l'alto numero di concorsi finiti davanti al giudice. È chiaro che questa situazione non incoraggia i giovani allo studio universitario, tant'è vero che abbiamo una quota bassissima, a livello mondiale, di laureati. I migliori, se hanno una famiglia benestante alle spalle, non restano in Italia, anche perché il numero dei nostri laureati in grado di trovare un impiego nel mondo del lavoro corrispondente ai loro studi è sconsolante.
Dunque, proprio per rispetto della tradizione universitaria italiana, che è alta e nobile, si deve con orgoglio ritrovare il modo per reclutare i docenti attraverso una valutazione assolutamente meritocratica.In secondo luogo, è necessario individuare percorsi formativi per gli studenti, che siano collegati al mondo del lavoro. Non si possono sfornare laureati inutili, per di più formati da docenti impreparati.
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