Il ritorno al metodo Di Pietro

Chi ha avuto modo di parlare in queste settimane con i difensori degli italiani arrestati in Belgio l'8 dicembre nella retata del Qatargate ha ricevuto descrizioni crude del sistema carcerario locale

Il ritorno al metodo Di Pietro

Chi ha avuto modo di parlare in queste settimane con i difensori degli italiani arrestati in Belgio l'8 dicembre nella retata del Qatargate ha ricevuto descrizioni crude del sistema carcerario locale. Dalle celle squallide, ai colloqui quasi impossibili, all'assenza di assistenza psicologica: nulla è stato fatto per rendere meno traumatico l'impatto con la detenzione. Si dirà: è giusto così, i colletti bianchi vanno trattati come i criminali comuni. Vero. Fa specie, semmai, apprendere che a pochi chilometri dai lussi dell'Europarlamento non si trovino i fondi per garantire sistemazioni decenti ai carcerati, qualunque sia il reato loro attribuito. Ora però si pone un altro problema, che va aldilà delle condizioni di detenzione più o meno confortevoli riservate a Panzeri & C., ed investe l'utilizzo del carcere preventivo ai fini dell'inchiesta. È un tema che in Italia è presente dall'epoca di Mani Pulite: quando la prassi di tenere la gente in cella fin quando non confessava i propri reati e accusava amici e compagni era persino teorizzata dal pool. «Chi «canta» può uscire perché si è reso inaffidabile verso i suoi complici»: questo era il mantra che permise la demolizione per via giudiziaria della Prima Repubblica. Sta accadendo qualcosa del genere anche a Bruxelles? Il fatto che un giornale locale abbia definito l'inchiesta sul Qatargate una «Mani Pulite in chiave europea» aveva già suscitato il timore che insieme agli obiettivi il giudice Claise avesse mutuato da Di Pietro anche i metodi. E le ultime iniziative degli inquirenti rafforzano i sospetti. Prima la decisione di tenere dentro arrestati che non si capisce quali altri reati possano commettere e quali prove possano inquinare, poi l'iniziativa di richiedere all'Europarlamento di togliere l'immunità a altri due deputati, aprendo la strada non solo alla loro incriminazione ma anche al loro arresto, hanno un significato preciso. È un segnale mandato a Tarabella, a Cozzolino e insieme a loro a tutti i potenziali indagati: collaborate finché siete in tempo, l'alternativa è la cella. E - come spiegava ieri al Giornale il fratello di un altro arrestato, Niccolò Figà Talamanca - «il sistema giudiziario belga consente un uso illimitato della custodia cautelare».

Le accuse mosse a Panzeri e confortate dalle prove - quattrini compresi - emerse nel frattempo sono di gravità estrema, l'allargamento dell'inchiesta a altri membri della sua rete e ad altre reti che sicuramente esistono è doverosa. Ma se il sistema è fare tintinnare le manette, forse sarebbe giusto chiedersi se ne vale la pena (adesso, non trent'anni dopo come si è fatto da noi).

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