La rivincita del dialetto

Arriva la versione dello Scarabeo in cui sono ammesse le parole tipicamente regionali Dopo i cartigli dei cioccolatini e i corsi universitari, l'ennesimo successo del vernacolo

Anvedi: 16 punti. Bauscia: 15 punti. Mizzica: 24 punti (grazie alla doppia zeta). Guaglione: 29 punti. Baxèlega: nisba, perché la «x» non è compresa tra le lettere dell'edizione italiana di Scrabble. Tutti al netto dei moltiplicatori del punteggio della singola lettera e dell'intera parola, che dipendono ovviamente da come essa si colloca sul tabellone.

Potremmo chiamarlo 'o scarrafone, ma si chiama Scrabble Italia ed è l'edizione speciale del popolare gioco di parole che, pur di far concorrenza alle console e ai giochi online, strizza l'occhio al populismo ilagante e sdogana le parole dialettali. Laddove nella versione «accademica» del gioco la Cassazione in caso di diatribe è il vocabolario (meglio se lo Zingarelli), nell'edizione parla-come-mangi ci si abbandona a una deriva plebiscitaria: non esistendo un database di riconosciuta affidabilità sono gli stessi giocatori in seduta plenaria a decidere se la parola vernacolare può essere accettata o no: e se termini come «scuorno», «pirla», «troiaio», «rumenta» metteranno d'accordo tutti, che accade se qualcuno dispone sul tabellone la parola pittima, che in genovese indica chi si lamenta sempre? Dà il via libera soltanto chi ha ascoltato le canzoni di De André?

Problemi che riguarderanno chi comprerà la confezione e sfiderà i suoi amici. Ma l'iniziativa della Mattel, che pubblica il gioco, non è da prender sotto gamba. Ci raccnta infatti che i dialetti sono vivi e vegeti e non ci si vergogna più di masticarli come nell'epoca dell'alfabetizzazione di massa dell'Italia grazie alla televisione e al maestro Alberto Manzi, quello che agli inizi degli anni Sessanta si mise in testa di insegnare l'italiano ai contadini, agli operai, a quelli che si erano fermati alla terza media e magari anche prima. «Non è mai troppo tardi», si chiamava la sua trasmissione che andava in onda tutti i giorni in orario preserale dapprima sul Primo canale e poi sul Secondo della superdidattica Rai, che per intenti formativi come questi si guadagnò in quegli anni il soprannome di «Mamma». Erano anni, quelli, in cui se non si sapeva parlare un buon italiano si preferiva il silenzio. Del resto si teneva anche ad avere le competenze necessarie per svolgere i compiti per cui si veniva pagati. Oggi invece l'incompetenza e il pressapochismo sono considerate delle virtù, ed ecco che anche i dialetti tornano popolari.

In realtà bisogna distinguere: secondo i linguisti il dialetto è da condannare quando è l'unico strumento di comunicazione, trionfo di localismo e campanilismo, a volte di diffidenza e scarsa curiosità per l'«altro». Ma quando il dialetto si affianca a un italiano se non forbito quanto meno corretto, ecco che assume una valenza espressiva, di arricchimento del linguaggio. Anche perché i dialetti sono miniere di sfumaure intraducibili: prendete il «patacca» romagnolo, figura tipica del gradasso di provincia, fanfarone e inaffidabile; prendete il poetico «schizzechea» con cui a Napoli si definisce la pioggerellina leggera; prendete per restare a Napoli la «cazzimma», quel misto di grinta, ostinazione e cinismo tipico di tizi dalla forte personalità e l'«apucundria», una malinconia densa e quasi letteraria; prendete ancora il «ciocapiat», il superficialone in versione emiliana; e il romano «accrocco», simbolo nazionale dell'improvvisazione. In che modo tutti questi termini autenticamente glocal potrebbero essere resi in italiano se non - come abbiamo fatto noi - con giri di parole inevitabilmente svilenti?

Del resto se ne sono accorti anche i professoroni della Crusca, che qualche mese fa hanno (parzialmente, va detto) autorizzato frasi come «esci il cane» o «siedi il bambino». La facoltà di Studi Umanistici dell'Università di Cagliari da tempo tiene un corso in lingua sarda. Le università di Trento e Verona nel database «Vinko» raccolgono le sfumature linguistiche del cimbro e di altre lingue locali.

E anche la Perugina un paio di anni fa infilò nei Baci cartigli con frasi romantiche in dialetto. Come «I innamorat guarden minga a spend». Ovvero: gli innamorati non badano a spese. In milanese. Perché in genovese una frase simile non c'è.

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