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È la rivincita della Procura dopo lo schiaffo della Consulta

Lo scontro istituzionale del 2012: pm obbligati a distruggere le telefonate con Mancino. Ma ora hanno pareggiato

Ci fossero stati anche giornalisti e telecamere, il trionfo sarebbe stato completo. E forse è stata proprio la mancanza di riflettori a far sì che nella Sala del Bronzino eletta a succursale dell'aula bunker dell'Ucciardone ci fosse un clima disteso, addirittura «ossequioso», assicura chi c'era. Anche se all'ingresso del capo dello Stato i difensori sono scattati in piedi, mentre i pm, dice un'agenzia, sarebbero stati meno solerti. Dettagli. Scorie delle tensioni mai sopite tra una delle Procure più esposte d'Italia, Palermo, e l'istituzione più alta della Repubblica, il Quirinale. Ma per i pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, comunque, la giornata di ieri, con il teste Napolitano Giorgio, presidente della Repubblica in carica lì, a disposizione per una mattinata a rispondere alle loro domande, è stata quella della riscossa. Il giorno della rivincita dopo le amarezze incassate in uno degli scontri istituzionali più pesanti che la storia della Repubblica abbia mai vissuto: quello sulle intercettazioni tra il capo dello Stato e il non ancora indagato Nicola Mancino, match perso clamorosamente dalla Procura di Palermo, sconfessata e costretta dalla Consulta a distruggere quelle telefonate.

Nessun cenno a quei colloqui nell'esame, ovattato, che si è svolto ieri al Quirinale. Non poteva esserci, la Corte costituzionale è stata tranchant nell'imporre la distruzione di quelle bobine. Eppure. Eppure è proprio quel primo episodio, il capo dello Stato spiato indirettamente (l'intercettato era Mancino, ex presidente del Senato) da una Procura, la chiave di volta che fa comprendere quanto importante sia stata, e non per quello che Napolitano ha detto, l'udienza che si è svolta ieri. Perché è lottando contro tutto e tutti, pure litigando tra loro, che alla fine i pm di Palermo hanno ottenuto il risultato: il capo dello Stato alla sbarra nel processo forse più infamante per la Repubblica, quello sul patto coi boss.

Ricordate? Era l'estate del 2012. Le prime indiscrezioni sui giornali relative alle intercettazioni di Napolitano, la conferma-smentita data dal pm Nino Di Matteo, in un'intervista a Repubblica del 22 giugno: «Negli atti depositati non c'è traccia di conversazioni del capo dello Stato, e questo significa che non sono minimamente rilevanti». E invece quelle telefonate c'erano, ed erano quattro: due da Mancino a Napolitano, il 24 e il 31 dicembre del 2011, due da Napolitano a Mancino, il 13 gennaio e il 6 febbraio del 2012. Diciotto minuti in tutto. Tenuti lì, in frigorifero, non agli atti e non trascritti: una bomba a orologeria. Il Colle ricorre alla Consulta per far distruggere quelle bobine, il 4 dicembre del 2012 arriva il verdetto pro Napolitano. E la Procura s'infuria. Tuona Antonio Ingroia, padre dell'inchiesta e all'epoca a un passo dalla discesa in campo: «Le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto». La reazione è scomposta. Persino l'Anm censura i colleghi, e i vertici palermitani del sindacato lasciano in polemica: erano Vittorio Teresi e Nino Di Matteo, i pm che ieri hanno interrogato Napolitano.

Persa una battaglia, la caccia dei pm a Napolitano continua. E, eliminate le intercettazioni, l'aggancio arriva da una lettera del consigliere giuridico morto d'infarto in quel 2012 di veleni, Loris D'Ambrosio. È Napolitano stesso a renderla pubblica, parla di «dubbi». I pm di Palermo tornano alla carica: Napolitano deve testimoniare. Il presidente manda una lettera alla Corte, spiega che nulla sa sul tema. Ma i pm insistono. E ottengono il via libera. L'ultimo schiaffo a Napolitano una settimana fa, quando vengono depositati vecchi atti dei Servizi già vagliati dai giudici di Firenze che parlano di un rischio attentati, nel '93, per i presidenti delle Camere, Napolitano e Spadolini. Lo sgambetto è doppio: Napolitano deve rispondere non solo sulla lettera di D'Ambrosio ma pure sulle nuove carte. E può interrogarlo anche l'avvocato di Riina. Il resto è cronaca di ieri, il trionfo dei pm. Esulta il procuratore reggente Leonardo Agueci, che per partecipare all'udienza - i pm titolari non lo volevano - ha dovuto litigare: «C'è stata una grande collaborazione, ha risposto a tutto in modo ampio.

La deposizione ha confermato l'utilità della sua citazione». Conferma Di Matteo, in un'intervista a Servizio Pubblico : «Quella del presidente è stata una testimonianza utile». Traduzione: abbiamo vinto noi. Il conto tra Procura e Colle per ora è pareggiato.

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