Rivolta nel carcere a Manaus Orrore tra morti e decapitati

Oltre sessanta vittime e agenti penitenziari in ostaggio Il massacro originato dalla rivalità tra le bande

Paolo Manzo

Rio de Janeiro Era appena sorto il sole quando ieri, dal carcere Anisio Jobím di Manaus, usciva il primo camion frigorifero. All'interno decine di corpi squartati e decapitati di detenuti, risultato di 17 ore di guerra campale a suon di machete, coltelli ed armi da fuoco in quella che nell'immaginario di noi italiani dovrebbe essere solo la terra di Mister No, l'eroe dei fumetti simbolo del bene che lotta per preservare l'Amazzonia. Nella Manaus di inizio 2017, invece, da tempo trionfa il male, almeno da quando questa parte di Brasile si è trasformata in un enorme hub della cocaina proveniente dalla Bolivia e dal Perù, dopo la Colombia i due paesi che più producono polvere bianca. La mattanza scoppiata il primo gennaio è solo la dimostrazione che il controllo dell'Amazzonia di confine vale miliardi ed è l'ultimo capitolo di una guerra sanguinaria tra i principali cartelli della droga brasiliani.

Almeno 60 i morti, quasi tutti narcos del «PCC», acronimo che sta per «Primeiro Comando da Capital», ed un centinaio i feriti. A scatenare l'inferno in quella che è la maggiore strage carceraria che il Brasile ricordi dall'eccidio di Carandiru - quando nel 1992 a San Paolo furono 111 i detenuti ammazzati dalla polizia non sono state però le guardie penitenziarie che, anzi, sono rimaste sequestrate da detenuti armati sino ai denti, bensì la cupola della «Familia do Norte». Si tratta del terzo cartello narcos più poderoso in terra verde-oro e che, dal 2016, si è alleato con la mafia del «Comando Vermelho» proprio per combattere il «PCC», nato proprio dopo Carandiru per «garantire i diritti dei carcerati» ma, ben presto, trasformatosi nel gruppo criminale più potente, ricco e ben armato del Brasile. Fu infatti il «PCC» che nel maggio del 2006 mise a ferro e fuoco la terza città più grande al mondo, San Paolo per l'appunto, paralizzandola per settimane con l'obiettivo poi raggiunto di arrivare ad un accordo con le autorità, evitare trasferimenti scomodi ai suoi leader arrestati, garantendosi così il comando assoluto all'interno di 135 delle 152 carceri del paese verde-oro. Una dimostrazione di forza che convinse il Comando Vermelho il secondo gruppo narcos più potente del Brasile e nato a Rio a mantenere l'accordo siglato a metà anni Novanta con il «PCC» per spartirsi i proventi della droga che fanno oggi del paese sudamericano il maggiore esportatore di coca al mondo (fonte ONU), oltre che il fornitore dell'80% della polvere bianca che partendo dal porto di Santos è poi sniffata in Europa.

Ora quell'accordo ventennale è stato ufficialmente rotto dalla carneficina ordinata da Gelson Lima Carnaúba, alias «G» e da José Roberto Fernandes Barbosa, noto ai più con il soprannome di «Messi», i due leader della «Familia do Norte»

ed il mondo carcerario brasiliano trema insieme a quello politico, da tempo abituato a fare inconfessabili accordi di appeasement coi maggiori gruppi narcos, basti pensare alle tregue durante Olimpiadi e Coppa del Mondo.

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