La Roma di Marino è un far west: gioielliere ucciso

Un gioielliere settantenne massacrato durante un furto nel centralissimo quartiere Prati

La Roma di Marino è un far west: gioielliere ucciso

C'è un'aria sospesa in via dei Gracchi, tutti guardano verso la gioielleria di Giancarlo Nocchia, come se da quella porta a vetri, dietro alla quale ci sono solo i carabinieri e il suo corpo martoriato, potesse all'improvviso uscire una risposta. Un commerciante è stato ucciso con una violenza sproporzionata, come è accaduto a Maria Luisa Fassi, la tabaccaia massacrata nel suo negozio ad Asti. Nel delitto di Roma però, almeno al momento, nessuno dubita che si tratti di una rapina, visto che l'assassino ha svuotato la vetrina del negozio. La notizia, circolata di bocca in bocca nella sua intera crudezza, perché Roma è così, una grande città formata dalla somma di tanti paesini, la sanno già tutti nella piccola folla che circonda il negozio. E allora che risposta ci si può attendere? È una rapina, punto. Sarà che nessuno qui si vuole rassegnare al fatto che si possa morire così, in un negozio, in pieno centro di Roma. Morire a 70 anni, età in cui molti sono già in pensione da un bel po', perché tu non vuoi o non puoi mollare quel piccolo mondo che ti sei costruito, che ha mandato avanti la tua famiglia, e un balordo ha pensato bene di sistemarsi, magari scegliendo il negoziante anziano, pensandolo indifeso. Rapine e furti sono il vero delitto contro la quotidianità, qualcuno cerca scorciatoie nella vita e colpisce chi percorre la strada più ordinaria, quella del lavoro, alzarsi presto per una vita, far quadrare i conti. I vicini di bottega, i passanti che interrompono lo shopping, due turiste dall'aria nordica che probabilmente sono appena state a vedere la Basilica di San Pietro, i parenti della vittima che si abbracciano e piangono, forse la vera risposta che tutte queste persone vorrebbero sentire è semplicemente «non deve capitare, non capiterà più, non capiterà a me». «Per favore non scrivete che è solo un altro commerciante ucciso, qui si muore, non c'è sicurezza». Claudio Pica, cognato della vittima, rimanda le lacrime a dopo, davanti ai giornalisti sa che deve svolgere il suo ruolo di rappresentante dei commercianti, deve far sentire la loro voce, fa la faccia dura e invoca il governo, la certezza del diritto e delle punizioni che potrebbe fermare i criminali, forse. Quel che è certo è che nel Lazio, come in tutto l'Occidente, i crimini violenti sono in calo. Eppure crescono proprio i delitti contro la quotidianità, i delitti «anti borghesi», i furti e le rapine: i reati predatori sono aumentati da 192.000 a 201.000 in un anno, un aumento del cinque per cento, con Roma che ovviamente catalizza oltre l'ottanta per cento dei reati. Ma non ci sono solo i segnali che vengono dai numeri che dovrebbero preoccupare chi è responsabile dell'ordine pubblico nella capitale d'Italia. La sicurezza è un po' come l'afa: non conta solo quella misurabile, conta anche quella percepita. E la verità è che a Roma c'è un brutto clima umano, non ci si sente sicuri nemmeno in strade centrali come quella dove ieri è stato ucciso un gioielliere, dove pensi che nessuno sarebbe così pazzo da sfidare controlli e telecamere. Non ci si sente sicuri a prendere la metropolitana o un mezzo pubblico, i negozianti avvisano i turisti di stare attenti. Non si vive tranquilli e c'è la sensazione che ogni giorno consegni alla città un nuovo segnale funesto: un bimbo che muore in metropolitana, una signora falciata da un pirata mentre aspetta l'autobus.

Le autorità politiche che governano questa città, messe sotto scrutinio per altri fatti criminali, e quelle che devono valutarne l'operato, tengano presente anche questo. Qualunque sia l'esito di questo scrutinio, sindaco e prefetto dovranno mettere in cima alla loro agenda l'obbligo di dare una risposta a chi chiede di vivere questa città senza paura.

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