Unicredit ha compiuto un altro passo nel lento e complesso disimpegno dalla Russia cedendo un portafoglio di leasing da 3 miliardi di rubli (33,4 milioni di euro) a PR-Leasing, operazione che secondo il quotidiano Kommersant riduce il profilo di rischio ma non elimina l'incognita principale: la minaccia di nazionalizzazione. In queste settimane, il Cremlino ha mostrato quanto siano sottili i margini per le aziende occidentali. E il caso Unicredit resta il più delicato di tutti, perché non sono in discussione fabbriche o impianti, ma un capitale congelato in un sistema finanziario che procede per sequestri mirati e pressioni politiche.
Il ceo di Unicredit, Andrea Orcel, lo ha spiegato con chiarezza nell'audizione del 27 novembre: "Abbiamo 3,7 miliardi di euro di capitale in Russia, che si è accumulato perché con la guerra non possiamo tirarlo fuori". La domanda che gli viene rivolta di continuo - perché non chiudere tutto - riceve sempre la stessa risposta: "Chi ne beneficia il giorno dopo? Il Paese che non vogliamo aiutare". È un ragionamento lineare, che però espone proprio al rischio che oggi più preoccupa i regolatori: la possibilità che Mosca proceda a una nazionalizzazione forzosa a un prezzo simbolico. Orcel stesso ha ammesso che "è vero che ci possono nazionalizzare", ricordando come commettere un solo errore significherebbe dare via libera a Putin. È qui che rientra il punto politico. Quando, nell'aprile scorso, il Mef impose con il Golden Power l'uscita obbligatoria dalla Russia entro dodici mesi come condizione per l'Ops su Banco Bpm, il messaggio non era punitivo, bensì prudenziale. All'epoca sembrò un'ingerenza, ma gli eventi di quest'anno mostrano che quel monito aveva un senso preciso: prevenire proprio lo scenario che oggi si materializza, ossia una vulnerabilità strutturale che nessun piano industriale può sterilizzare del tutto. Che Unicredit contestasse quella prescrizione era comprensibile dal punto di vista tecnico: vendere in fretta significava presentarsi al Cremlino con un obbligo pubblico e quindi senza potere negoziale, condizione ideale per essere liquidati "a un rublo". Il Tar ha poi annullato la clausola, riconoscendo la fondatezza delle obiezioni della banca. E tuttavia, col passare dei mesi, il quadro ha finito per confermare l'intuizione originaria del Mef: la Russia usa gli asset stranieri come strumenti di pressione politica, e per una banca la soglia di rischio resta sempre superiore a quella di gruppi industriali come Ariston, che pure ha subito un commissariamento e solo grazie all'intensa attività diplomatica del ministro Tajani ha ottenuto la restituzione delle proprie attività.
Unicredit ha ridotto l'esposizione cross-border del 90%, ha isolato la controllata, ha abbattuto prestiti e depositi fino a livelli marginali. Eppure la nazionalizzazione resta sullo sfondo.
È in questa cornice che il Golden Power va riletto: non come un ostacolo all'operazione su Banco Bpm, ma come un tentativo di ricordare che in Russia il rischio non è mai statico. E le mosse di queste ore, con dirigenti in fuga e un nuovo pacchetto di sequestri all'orizzonte, lo dimostrano una volta di più. Il consiglio di Giorgetti, alla fine, era meno politico di quanto sembrasse.