Il sì tedesco all'intervento in Libia isola l'Italia

Si ripropone l'incubo del 2011, quando Berlusconi fu messo alle corde

Gian MicalessinLo spettro è quello del 2011. Allora l'intervento in Libia e il tentativo di metter le mani sugli interessi italiani furono preceduti dall'isolamento e dalla messa alla berlina di Silvio Berlusconi. Oggi al posto di Silvio c'è Matteo Renzi, ma lo scenario, guarda caso, è lo stesso. I venti di guerra sollevati da Francia e Inghilterra, e rafforzati ieri dall'anomala voglia interventista d'una Germania pronta, secondo il ministro della Difesa Ursula Von Der Leyen, a «fare la propria parte», sembrano il perfetto corollario della crociata anti Renzi innescata dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. Una crociata che minaccia di lasciare ancora una volta sola e isolata l'Italia illusasi di poter guidare l'intervento nell'ex colonia. E così mutatis mutandis persino l'uscita del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni costretto - ieri - a rincorrere la valchiria Ursula offrendo la disponibilità di un'Italia «pronta se richiesta» a collaborare in «eventuali operazioni militari in Libia» sembra il déjà-vu del giro di valzer con cui, nel 2011, il presidente Napolitano riposizionò l'Italia al fianco degli alleati. Con una sostanziale differenza. Napolitano godeva allora del credito di Washington e Parigi in funzione anti Berlusconi. Gentiloni è, invece, parte del fastidio generato dal tentativo del governo Renzi di bloccare prima il rinnovo delle sanzioni alla Russia e poi i tre miliardi di euro vanamente promessi dalla Merkel al presidente turco Erdogan per bloccare il flusso dei rifugiati. Senza contare il malanimo di Hollande sentitosi tradito, all'indomani dei massacri di Parigi, dal rifiuto di Renzi di aprire il fronte siriano. Del resto basta leggere le reazioni di Gentiloni per capire come anche lui consideri un «trappolone» le uscite d'una ministra tedesca improvvisamente esplicita nell'usare «un linguaggio che usiamo da settimana tra Paesi alleati sulla Libia». Nella fretta di ribattere a Ursula e non lasciar indietro l'Italia Gentiloni fa, però, intravvedere lo spiazzamento del nostro Paese. La Libia, fino a due settimane fa, era per Gentiloni un luogo inadatto ad «esibizioni muscolari» dove bisognava, innanzitutto, creare una cornice politica all'intervento militare garantendo l'insediamento del governo di unità nazionale. Ora, invece, consapevole del fossato politico e militare scavatogli attorno dagli «alleati», rincorre gli eventi e dichiara l'opposto. Come non capirlo. Sul fronte politico la gestazione del governo di unità nazionale libico affidata, in teoria, all'Italia è in verità saldamente nelle mani di Martin Kobler, il proconsole tedesco nominato inviato dell'Onu in Libia su pressione di Angela Merkel. Sul fronte militare l'iniziativa è invece tutta nelle mani di Londra e Parigi pronte, ora anche con l'aiuto della Cancelliera, ad assumersi l'onere e il merito della campagna contro l'Isis. In questo scenario l'Italia si ritrova con una doppia spada di Damocle. Sul fronte politico rischia di diventare il paravento per il naufragio d'un esecutivo di unità nazionale fuori dal suo controllo e trasformato da Kobler in un incontrollabile ring libico. Sul fronte militare rischia di venir additata come il ventre molle di un'alleanza evidentemente più interessata a fermare l'Isis che non a creare le premesse per una stabilizzazione garantita da Roma. E così l'Italia, colpevole anche stavolta di non aver preso le distanze di Mosca, vede riproporsi l'incubo del 2011. Allora il tentativo di garantire a Gazprom e alla Russia una partecipazione nello sviluppo delle risorse energetiche di Gheddafi costarono la vita al raìs e la poltrona a Berlusconi.

Oggi quello di smarcarsi da Londra, Berlino, Parigi e Bruxelles rischia di lasciarci nuovamente soli e isolati alla vigilia di un intervento decisivo per i nostri interessi nazionali. E l'Hollande abbandonato da Renzi minaccia di diventare il nuovo Sarkozy.

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