C'è un numero ricorrente nella vita recente del premio Nobel Aung San Suu Kyi, è l'11. Lo scorso 11 novembre il Gambia, minuscolo paese africano, l'ha denunciata alla Corte di giustizia internazionale con l'accusa di genocidio. Oggi, 11 dicembre, dovrà rispondere al Tribunale dell'Aja di tali accuse e il suo intervento è previsto alle 11. Nella cabala l'11 è il numero della «trasformazione», appropriato per la condizione dell'attuale consigliere di stato di Myanmar, che nello spazio di pochi anni è passata da paladina dei diritti a carnefice delle minoranze. La storica attivista democratica, vincitrice del premio Nobel per la pace dopo aver sfidato la giunta militare, era giunta al potere a Myanmar (l'ex Birmania) dopo una travolgente vittoria elettorale l'11 novembre 2015, inaugurando il primo governo civile del paese in mezzo secolo. Ma la sua reputazione è stata oscurata dalla risposta alla difficile situazione dei rohingya, la minoranza musulmana perseguitata che vive nello stato occidentale di Rakhine. Il processo all'Aja non la vede formalmente sul banco degli imputati, ma la vicenda ha da tempo offuscato la sua immagine internazionale di eroina della democrazia. Il procuratore del Gambia che segue il caso, Abubacarr Marie Tambadou, ex ministro della Giustizia del suo paese, ha chiesto ieri mattina in aula che il Myanmar metta immediatamente fine alla persecuzione dei rohingya. Suu Kyi prenderà oggi la parola sostenendo che i militari hanno agito nel rispetto della legge, ma l'intervento sarà preceduto dalla consegna di una memoria difensiva del team dei suoi avvocati. Nel documento i legali sostengono che nessun genocidio si sia verificato, che il massimo tribunale delle Nazioni Unite non ha giurisdizione per decidere su un caso che inoltre non soddisfa il requisito necessario dell'esistenza di una controversia tra Myanmar e Gambia.
In realtà le angheria da parte della maggioranza buddista del paese contro i musulmani rohingya continuano e sono ben documentate. Un milione di persone vive attualmente nello squallore nei campi profughi del confinante Bangladesh, mentre diverse centinaia di migliaia rimangono all'interno del Myanmar, segregati in campi e villaggi in condizioni simili all'apartheid. Sul tavolo dei giudici è arrivato ieri mattina anche un dossier video e fotografico redatto da Nicholas Bequelin, direttore di Amnesty International per l'Asia. I filmati comprovano la costruzione di recinzioni intorno a un campo che ospita gli sfollati. Le foto mostrano militari impegnati a sistemare le recinzioni di filo spinato intorno a un grande accampamento a Balukhali, nel distretto del confine sud-orientale. «Se Aung San Suu Kyi è seria quando dice di voler servire il popolo di Myanmar, allora deve stare al fianco delle vittime e dei sopravvissuti nel perseguimento della giustizia, della verità e della riparazione.
Non dovrebbe proteggere coloro che sono sospettati di azioni criminali», ha dichiarato Bequelin ai cronisti. Dopo aver sentito le ragioni di entrambe le parti la Corte deciderà se avviare un processo, che potrebbe durare molti anni.
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