Che il sistema sanitario lombardo funzioni bene è innegabile. Eppure nei prossimi giorni sarà messo talmente sotto stress che rischierà il collasso. Nessuna esagerazione. Sono i numeri a dirlo. I posti nei reparti di terapia intensiva in Lombardia sono 900, più altri 100 recuperabili dalle sale operatorie, grazie al rinvio di alcuni interventi programmabili e all'utilizzo di quei letti che, per prassi, vengono lasciati liberi in caso di emergenza.
Ma se i casi gravi da coronavirus dovessero concentrarsi tutti nelle prossime due settimane, allora i reparti non sarebbero sufficienti per tutti i malati (di Covid-19 e di altro). Al momento i pazienti infettati che hanno bisogno di intubazione sono 86 (su oltre 230 ricoverati) e i letti dedicati 104, distribuiti in 15 ospedali. È chiaro che il piano previsto in un primo momento vada ampliato, alla svelta.
Milano si organizza: 7 posti ancora disponibili al San Paolo, il Policlinico ha trasformato i letti di terapia intensiva neurochirurgica in un reparto dedicato al virus, trasferendo in terapia intensiva generale i pazienti neuro. Dal San Raffaele sono quattro i posti adibiti per il coronavirus, due al Policlinico di San Donato. Pronti a mobilitarsi anche al Niguarda. A preoccupare è l'effetto domino: «Se in un reparto arriva un malato di coronavirus - spiega il vice presidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala - L'area va isolata e gli altri pazienti ordinari vanno trasferiti altrove».
E potrebbe arrivare il giorno più critico: quello in cui la Lombardia (che storicamente accoglie il più alto numero di pazienti da fuori regione) debba chiedere ospitalità ai reparti delle altre regioni. L'Italia comincerebbe a rimpallarsi i pazienti. «Ci stiamo organizzando perché non succeda - spiega l'assessore lombardo alla Sanità Giulio Gallera - In Emilia hanno già 120 casi e anche nelle altre regioni i numeri cominciano ad aumentare, quindi tutti, chi prima chi dopo, avremo problemi di accoglienza. Per questo stiamo cercando di contenere l'espansione dell'epidemia, non vogliamo arrivare al giorno in cui ci sarà il problema dei letti in ospedale».
Nelle zone più colpite, l'emergenza dei posti letto si fa già sentire: a Cremona i reparti dedicati sono sovraccarichi. A Bergamo poco ci manca. «In pochi giorni - spiega Marzo Rizzi, direttore della Terapia Intensiva dell'ospedale Papa Giovanni - abbiamo visto che i cento letti predisposti per i contagiati non ci bastano e sono quasi saturi i 19 posti in terapia intensiva». A Varese, dove l'epidemia per ora è contenuta, ci si prepara comunque a far fronte a un aumento dei casi: «Abbiamo già fatto in modo di potenziare i letti - spiega Paolo Antonio Grossi, ordinario di malattie infettive all'Università dell'Insubria - ma è fondamentale fare in modo che la curva epidemica cresca con una rapidità più contenuta». Considerando che un ricovero per una caso grave dura tra le due settimane e i venti giorni, occorre fare in modo che ci sia rotazione e non si crei «un effetto imbuto» nel numero degli accessi in ospedale.
In sostanza, oltre ai medici e agli operatori sanitari (che ora rappresentano il 10% dei casi di infezione) rischiano di ammalarsi anche gli ospedali. «Questa malattia non è un banale influenza, non è la peste bubbonica, ma è una malattia che impatta molto sulle strutture sanitarie - spiega Antonio Pesenti, direttore del dipartimento di terapia Intensiva del Policlinico di Milano - Richiede l'isolamento e molto sforzo dagli ospedali. Per quanto la Lombardia abbia tutti gli strumenti, il principale provvedimento per evitare il disastro sanitario è contenere la diffusione dell'infezione.
Non c'è ancora una terapia specifica, non c'è un vaccino, possiamo solo contenere l'infezione. I rianimatori, le terapie intensive italiane hanno la tecnologie e le competenze, ma l'impegno è quello di prevenire le infezioni».
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