Coronavirus

La sanità privata finisce sotto accusa (ma ha raddoppiato le terapie intensive)

Bufera sulle cliniche convenzionate lombarde A marzo hanno creato 214 letti di rianimazione

La sanità privata finisce sotto accusa (ma ha raddoppiato le terapie intensive)

Un medico è un medico. Sia che lavori in un ospedale pubblico sia che lavori in un ospedale privato. E in queste settimane di emergenza, gli sguardi stanchi dietro a camici e occhiali protettivi erano gli stessi ovunque, a prescindere dal contratto. La voglia di darsi da fare anche. Eppure la sanità privata è stata accusata «di aver fatto la schizzinosa» nella gestione dei malati Covid. Di aver potuto scegliere come e se collaborare. Tanto che - si alza il coro di quelli bravi a criticare a posteriori - la Regione ha dovuto contrattare l'attivazione dei posti letto in terapia intensiva con i privati (che hanno il 30% di quelli lombardi). Un'accusa che equivale a dire: se la sanità privata si fosse mossa prima, non ci sarebbero stati tutti questi morti. «I privati - annuncia lo stesso presidente del Consiglio Conte a inizio marzo - dovranno mettere a disposizione personale, immobili e macchinari».

In realtà i privati si muovono, senza farsi corteggiare, ben prima dell'appello di Conte e della delibera regionale dell'4 marzo con cui la Regione decide di affiancare i medici degli ospedali privati a quelli degli ospedali pubblici Covid. Un esempio per tutti: il primo marzo 15 medici intensivisti si trasferiscono dagli ospedali del gruppo San Donato alle corsie della zona rossa del lodigiano e all'ospedale di Cremona. E già il 21 febbraio, quando scatta l'allarme, i direttori delle strutture private partecipano al primo vertice sul coronavirus con i colleghi del pubblico per condividere i protocolli e cominciare la disperata ricerca di posti letto. Le strutture Aiop, associazioni ospedali privati, alla metà di marzo hanno già messo a disposizione 270 letti di terapia intensiva (che oggi sono raddoppiati) e 2.621 posti letto per i ricoveri ordinari extra Covid. Fornendo una «stampella» fondamentale alla gestione dell'emergenza. Che è stata comunque drammatica, e lo è tuttora, ma che è stata affrontata, questo sì, senza campanilismi. Almeno fino ad ora. Adesso, a quanto pare, si è risvegliata la voglia di criticare quel modello di sanità formigoniano che ha sempre ammiccato ai privati in Lombardia più che altrove. E che ha causato la stessa caduta di Roberto Formigomi, condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione nell'inchiesta Maugeri, la clinica che avrebbe ricevuto rimborsi superiori a quelli che le sarebbero spettati.

Se c'è qualcosa su cui ha senso riflettere oggi è quell'eccesso di ospedalizzazione - tutto lombardo e ereditato dall'era formigoniana - che ha portato il numero delle strutture sanitarie private da 55 nel 1997 a 73 nel 2006. Perché è proprio quell'essere figli di una rete ospedaliera così capillare, sia pubblica sia privata, che ha spinto ad affrontare la primissima emergenza «solo» costruendo ospedali. Col senno di poi, sarebbe stato utile lavorare a monte del problema, puntando fin da subito (e non un mese dopo) sull'assistenza territoriale per evitare che le persone positive diventassero casi gravi da terapia intensiva. Ma da qui a parlare del «business degli ospedali» ne corre. Tra le accuse ai privati lombardi anche quelle sul numero di letti in terapia intensiva. Anche questo si può considerare un difetto di fabbricazione, implicito: è ovvio che il privato sia più interessato, per questione di rimborsi, ai ricoveri meno lunghi anziché alle degenze di settimane, ma è altrettanto vero che, nella normalità, aiuta a coprire, in tutta Italia, un quarto dei ricoveri. E che il San Raffaele si è costruito un reparto di terapia intensiva con soldi privati in una settimana o poco più.

Seppur con vari errori, forse in Lombardia è stato proprio il connubio pubblico-privato a mettere in piedi una rete di emergenza che in altre regioni non sarebbe stata possibile.

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