
Anas al Sharif, il corrispondente di Al Jazeera ucciso assieme a cinque colleghi da un missile israeliano era un giornalista o un militante di Hamas? Probabilmente entrambe le cose. Anche perché difficilmente il 7 ottobre 2023 avrebbe potuto seguire da giornalista embedded i militanti responsabili dei massacri negli insediamenti israeliani.
Ma la domanda vera è un'altra. In una striscia di territorio larga dieci chilometri e lunga quaranta, rimasta per 19 anni sotto il controllo esclusivo di un gruppo armato di ispirazione jihadista è possibile diventare giornalisti senza condividere fede, ideologia e obiettivi di chi comanda? E, più banalmente, è possibile imporsi come professionisti affermati, senza aver sottomesso il proprio lavoro ai voleri di chi controlla ogni momento della tua esistenza e ha in mano il futuro tuo e della tua famiglia? La risposta è no. In un Hamastan, trasformato - ben prima del 7 ottobre - in una gabbia da cui è impossibile fuggire, l'unico modo per accedere alle notizie, intervistare i capi dei gruppi armati ed essere presente lì dove i fatti accadono è intessere relazioni con chi comanda. E soprattutto essere affidabile. Ovvero non rivelare segreti, nomi o volti di chi ti permette di svolgere il tuo lavoro. Soprattutto se quel lavoro viene venduto ad emittenti o media stranieri. Siano essi Al Jazeera o la Rai, la Bbc o le televisioni statunitensi.
Certo probabilmente non si tratta di autentico giornalismo, ma poniamoci qualche altra domanda scomoda. Quale tv internazionale non ha rimesso in onda le immagini girate il 7 ottobre da Anas al Sharif e altri "giornalisti militanti" unitisi alle squadracce di Hamas? E quanti di noi giornalisti liberi avrebbero rinunciato a seguire gli assassini di Hamas se per qualche strano motivo gli fosse stato offerto di documentare quei raid? E chi avrebbe avuto il coraggio di condannarli in diretta sapendo che i kalashnikov dei massacratori avrebbero potuto rivolgersi anche contro un inviato troppo audace? Ma la domanda più imbarazzante riguarda le finalità, il "cui prodest" dell'ennesimo assassinio mirato israeliano.
Anas al Sharif lavorava per Al Jazeera, la televisione di proprietà dell'emiro del Qatar conosciuta non solo per essere la voce della Fratellanza Musulmana, ma anche una delle emittenti più seguite nei Paesi musulmani e mediorientali. Dunque una delle emittenti capaci d'influenzare le opinioni pubbliche dei vari regni arabi e Paesi mediorientali con cui Israele vorrebbe fare affari, intrattenere rapporti diplomatici e collaborare per gestire la Striscia di Gaza una volta eliminato Hamas.
Un'ambizione difficilmente realizzabile se ammazzi sotto gli occhi delle telecamere uno dei volti televisivi diventati in questi anni il punto di riferimento di quelle opinioni pubbliche. Anche perché assassinando al Sharif non hai sconfitto Hamas, ma soltanto moltiplicato la credibilità di Al Jazeera.