In alcune zone devastate dal sisma la gente vive ancora nei prefabbricati, la ricostruzione del patrimonio edilizio non è stata del tutto completata, diverse aziende che dovevano risollevare le sorti di questa ampia fetta di Sud hanno chiuso i battenti; per non parlare delle infrastrutture fantasma e dei soldi spesi (e sprecati) dallo Stato: circa 50mila miliardi di vecchie lire. È il colossale fallimento dell'operazione varata per offrire una speranza a Campania e Basilicata dopo il terremoto del 23 novembre de 1980.
Erano le 19,34, la terra tremò per 90 interminabili secondi, magnitudo di 6,9 gradi della scala Richter e del decimo della Mercalli: i morti furono 2.914, i feriti 9mila mentre oltre 400mila rimasero senza casa. L'epicentro fu in Irpinia, interi paesi furono spazzati via. La provincia più colpita fu quella di Avellino: dei 119 comuni irpini, 99 riportarono danni alle strutture. La storia della ricostruzione è uno dei grandi scandali italiani, accompagnato da polemiche e inchieste, proclami e appelli. Tutto rimbalzato su un muro di gomma che ha impedito un'autentica svolta. Lo Stato mise a punto un piano che prevedeva non soltanto la rinascita dei paesi devastati, ma anche l'insediamento di diverse aziende per far nascere sulle macerie del sisma un solido tessuto produttivo: molte imprese col tempo hanno chiuso, alcune infrastrutture non sono state completate, tanti progetti sono rimasti soltanto sulla carta e messi nel dimenticatoio della burocrazia italiana. Al punto che nella relazione presentata alla Camera un anno e mezzo fa figurano opere che dovrebbero terminare nel 2017. E poi c'è il dramma della popolazione.
Per capire è sufficiente farsi un giro al rione Bucaletto di Potenza, un intero quartiere di prefabbricati sorto per dare un tetto agli sfollati: doveva essere una soluzione temporanea, ma le prime vere case sono arrivate solo l'anno scorso. A 36 anni dal terremoto. BCas
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