Fino a qualche anno fa c'erano solo i sukuk, le obbligazioni riservate agli investitori islamici. Poi, visto che pecunia olet sempre meno, anche l'Arabia Saudita ha cominciato a far debiti con tutti senza più chiedere la patente religiosa. Meglio un cedimento sull'ortodossia dura e pura, piuttosto che rischiare la bancarotta a causa di casse sempre più vuote. Anche a costo di mandare al macero l'immagine dello sceicco straricco che nuota placido in un mare di petroldollari. L'andazzo di bussare a quattrini ha preso una piega talmente consolidata che il fondo sovrano di Riad ha giusto ottenuto ieri un prestito da 11 miliardi di dollari (circa 10 miliardi di euro). È un altro bond ciclopico, dopo quello da 12 miliardi collocato nel settembre dello scorso anno. Un fiume di denaro che serve, ufficialmente, a sostenere il piano Vision 2030 con cui l'erede al trono Mohammed bin Salman punta ad affrancare il Paese dalla mono-dipendenza dal greggio. Altri modi per portar cash alla casa regnante, al momento non ce ne sono. La quotazione di una porzione del gigante petrolifero di Stato Aramco (valore stimato oltre 2mila miliardi, più del Pil italiano), da cui era atteso un introito attorno ai 100 miliardi, sta diventando come Godot: la si aspetta da anni, ma non arriva mai. Colpa - dicono i sauditi - della volatilità dei mercati. Il sospetto, però, è che dietro i ritardi ci sia la scarsa voglia di rendere pubbliche informazioni strategiche, a cominciare dall'ammontare degli stock petroliferi sauditi.
La tendenza a chiedere sempre più quattrini in giro per il mondo è diventata una costante a partire dalla fine del 2014, quando il rapporto tra debito e Pil ancora esprimeva un confortante 9,2%. Oggi quel rapporto è esploso al 37,6%, a rivelare tutta la fragilità finanziaria del Paese. Per la prima volta, gli sceicchi sono costretti a misurarsi col lessico della crisi. Un conto, infatti, è sostentare un welfare da Bengodi quando i prezzi del petrolio furoreggiano a 120 dollari, come nell'estate 2015; un altro, invece, è tenere in piedi l'Eldorado quando i pozzi eruttano la miseria di 30 dollari per barile. Dopo aver abbondantemente attinto alle proprie riserve valutarie, Riad ha cercato per un certo periodo di tamponare le falle adottando nel Golfo Persico un'austerity all'ellenica: tagli a salari e pensioni, giro di vite alla spesa pubblica e alle forme di sussidio, introduzione dell'Iva e, inaudito da quelle parti, perfino tasse sui redditi. Roba da standing ovation per la Troika. La sola voce non toccata, quella per le spese militari. Se tre anni di guerra con lo Yemen hanno finito per drenare miliardi dalle casse, la cocciutaggine con cui per anni l'Arabia si è opposta a un taglio della produzione petrolifera è responsabile per buona parte della caduta delle quotazioni e, quindi, dei bilanci in rosso. Quando l'Opec, d'intesa con i Paesi al di fuori del Cartello come la Russia, ha trovato un accordo sul contenimento produttivo, i prezzi hanno infatti ripreso a salire fino a sfiorare un massimo di 80 dollari.
Ma ancora non basta. Non appena la popolazione ha cominciato ad arricciare il naso, la cura draconiana necessaria per rimettere in carreggiata i conti è stata subito abortita e i problemi sono rimasti irrisolti. Del resto, la monarchia saudita deve evitare a ogni costo che dalle tensioni sociali possa derivare un contributo al rafforzamento dell'islamismo più radicale. Già l'elevata disoccupazione giovanile espone il Paese a questo rischio.
In assenza di altre misure, e se le quotazioni
del greggio non risaliranno oltre i 100 dollari, la spinta all'indebitamento è destinata ad aumentare. Il fondo sovrano già prevede di rafforzare le proprie attività a 400 miliari entro il 2020. Altri saudi-bond in arrivo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.