Putin ha perso ogni appeal. E gli italiani sono saliti sul carro delle sanzioni, ma i sacrifici, le rinunce, sono un'altra cosa. Questa compattezza potrebbe sfarinarsi nelle prossime settimane. Lorenzo Pregliasco, direttore del web magazine YouTrend, professore di strategie elettorali all'Università di Torino e fresco autore del libro Benedetti sondaggi, appena pubblicato da Add Editore, è prudente: «Per ora non c'è uno scollamento fra le misure restrittive decise dal governo dopo l'invasione russa in Ucraina e la risposta dei nostri connazionali, ma sarei cauto su quel che accadrà nelle prossime settimane».
Putin è crollato nel gradimento?
«Certo. Nel 2021 il 42 per cento degli italiani, secondo un rilevamento di Demos, aveva simpatie per lui; qualche giorno fa eravamo all'8 per cento e se si dovesse tastare ancora il polso del Paese dopo la scoperta delle fosse comuni e degli indicibili massacri avvenuti, credo si scenderebbe ancora. Il fascino del Cremlino è svanito completamente, dissolto in questa guerra feroce».
Insomma, il Paese ha fatto una scelta di campo precisa?
«Non sarei così netto. Siamo diventati allergici al presidente russo e anche sulle sanzioni, i cui effetti si avvertiranno però nel tempo, siamo con il premier. Più del 50 per cento del campione esaminato da Ipsos appoggia le decisioni dell'esecutivo. Non andrei oltre».
Non è poco. Per parafrasare Draghi, gli italiani vogliono la pace e non i condizionatori?
«Io frenerei. Siamo un popolo pragmatico e non è detto che siamo disposti ad accettare le conseguenze di quelle decisioni che tutti a parole dicono di condividere».
I partiti, come la Lega e i 5 Stelle che sono meno duri con la Russia, sembrano guadagnare qualche consenso. Intercettano i primi segnali di un possibile riorientamento dell'opinione pubblica dopo più di un mese di bollettini luttuosi e bollette sempre più care?
«No, questo no. E poi parliamo di spostamenti modesti. Forse è ancora presto per avvertire un cambio di umore. Piuttosto, vedi Conte, quei movimenti pescano nel grande bacino del pacifismo, dell'avversione del nostro popolo agli apparati militari, e comunque si ritagliano uno spazio politico distanziandosi dagli altri partner della maggioranza. Le offro un dato recentissimo, diffuso da Ipsos: solo il 5 per cento del Paese manderebbe soldati col tricolore in Ucraina. Tutti gli altri dicono di no».
E sull'aumento delle spese per gli arsenali fino al 2 per cento del Pil?
«Per carità. Ho qui le cifre, elaborate da Emg, sull'invio da parte italiana di armi alla resistenza Ucraina. Come dire, il minimo sindacale».
I risultati?
«Il 55 per cento non è d'accordo con questa mossa, decisiva per gli ucraini assediati. E un altro 8 per cento non risponde. Diciamo che il quadro presenta alcune incongruenze».
Valori contraddittori?
«Esatto. Ad esempio il 59 per cento darebbe l'ok alla chiusura dei rubinetti di gas russi. Ma non so se hanno messo in conto che potrebbero rimanere al freddo. Però il 60 per cento, dunque un'ampia maggioranza, è contrario all'incremento delle spese militari».
Riaffiora un certo pacifismo?
«Siamo un Paese fatto così. Se mettiamo in fila i numeri ci accorgiamo che qualcosa non quadra. E i paragoni con gli altri Paesi europei aiutano a capire».
A chi si riferisce?
«Ad esempio alla Germania.
Dove certi rifiuti tutti italiani non trovano spazio. Il 78 per cento dei tedeschi condivide l'invio di armi a Kiev che da noi suscita tante perplessità e la stessa percentuale metterebbe mano al portafoglio per rinnovare gli arsenali».
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