Se in diretta tv va in onda un omicidio

La chiamerei estetica dell'orrore. Nel caso dell'assassino, che riprende con la telecamera le proprie vittime mentre vengono ammazzate, quell'estetica è resa possibile dall'ossessione per l'immagine.

L'esempio può apparire provocatorio e squilibrato: quante fotografie, quanti filmati vengono fatti con i telefonini? Una foto dovrebbe essere la (...)

(...) testimonianza di un evento, che si ritiene significativo, fissato in un'immagine. La virtualità di quell'immagine aiuta a ricordare, cioè a ritrovare, attraverso la memoria, la realtà.

Oggi, invece, una vera e propria ossessione sta scambiando la virtualità con la realtà, al punto che se non si fa la foto, significa che non esiste la realtà. Ecco allora tutti a scattare fotografie, a metterle in rete, a sostenere che il mio viaggio è più bello del tuo perché ho più foto di te: dunque ho visto più cose importanti di te.

Chiamerei, questa, estetica della stoltezza, in cui domina lo scambio ignorante e demenziale tra virtualità e realtà: esiste ciò che fotografo.

Non siamo ancora all'estetica dell'orrore, ma ci avviciniamo. Gli esempi clamorosi, in cui si unisce il potere ossessivo dell'immagine alla violenza, sono quelli dei tagliateste dell'Isis. Per loro ammazzare una persona, prima ancora d'essere un gesto di barbara giustizia, è un proclama, un'immagine di potenza e violenza. Molto più importante è trasmettere al mondo quell'immagine virtuale rispetto all'atto concreto, reale che uccide selvaggiamente. Tant'è vero che, essendo quelle immagini ormai tragicamente note e non più sbalorditive, gli assassini dell'Isis hanno incominciato a inviare le immagini di altre teste mozzate, quelle di statue meravigliose, la cui distruzione sta indignando il mondo civile.

Un uomo che ammazza i suoi due colleghi durante un'intervista in Virginia, riprendendoli con la telecamera, è un adepto di quell'estetica della stoltezza, ossessionato dall'idea che se non firma il suo folle gesto, questo non esiste, rimane un fatto personale, soggettivo, che potrebbe non essere creduto. Bisogna lasciare una traccia, e la vera traccia, che testimonia l'esistenza di qualcosa di reale, è quella virtuale.

Ma non basta: il suo filmato è pensato per essere messo in rete, al fine di propagandare non un'idea, non una religione, non una visione del mondo, ma se stesso. Non è sufficiente ammazzare: tutti devono sapere quale crimine efferato è stato commesso, quale terrore inferto, quali sofferenze prima della morte. Questa «bellezza» deve essere raccontata dalle immagini, perché là c'è la verità, poi trasmessa dalla rete. Un'estetica della ferocia, in cui la fascinazione per la violenza, la vendetta cruenta, il compiacimento per il dolore altrui diventano temi brutalmente riproposti dall'ossessione del potere indotto dalla virtualità dell'immagine.

Una follia; e così si potrebbe liquidare il gesto dell'assassino della Virginia.

Ma quella follia dagli esiti tragici è figlia degenere di questo nostro mondo che si sta consegnando alla virtualità sempre più allegramente e convintamente, affidandole sia le piccole cose d'uso quotidiano, sia i grandi sistemi di gestione della società politica ed economica. L'esperienza concreta, vissuta, ormai appare una pallida cosa di fronte all'universo virtuale. Lo si vede immediatamente nei giochi dei bambini: sono tutti virtuali; gli altri non interessano.

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