Una spia russa attiva per anni a Roma, sotto il naso dei nostri servizi segreti: anzi, addirittura nel cuore dell'Università che della nostra intelligence era il cuore accademico e di relazioni, la Link Campus dell'ex ministro dell'Interno Vincenzo Scotti. Il nome della spia: Joseph Mifsud, il professore maltese che dell'ateneo romano era docente e socio, svanito nel nulla proprio a Roma e invano cercato dalla Fbi in mezzo mondo. Personaggio ambiguo, inafferrabile (in tutti i sensi), finora sospettato di essere stato in qualche modo al servizio della Cia dell'epoca di Barack Obama, e di avere collaborato con le manovre per bloccare l'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016. E che ora invece vede il proprio ruolo interpretato in maniera diametralmente opposta. Mifsud in quegli anni avrebbe lavorato per il Gru, il servizio segreto del Cremlino. Una svolta che costringe a rileggere in toto la parte italiana del Russiagate. Ma anche a chiedersi come sia stato possibile che il controspionaggio italiano, affidato all'Aisi, non si sia accorto che proprio alla Link, nelle stesse aule dove dirigenti delle nostre forze di polizia e di intelligence tenevano corsi e conferenze, si muoveva - e a volte sedeva accanto a loro sul palco dei relatori - una spia al soldo di un paese straniero.
A lanciare la nuova pista è una fonte autorevole e ben documentata. A Mifsud è dedicato un ampio capitolo nel quinto volume, reso disponibile online nei giorni scorsi, della monumentale relazione conclusiva della commissione Intelligence del Senato statunitense sulle manovre che la Russia avrebbe messo in atto per condizionare la corsa alla Casa Bianca di cinque anni fa. La commissione bipartisan ha concluso i suoi tre anni di indagini affermando di avere trovato «prove irrefutabili» delle operazioni russe per inquinare la campagna elettorale ma ha altrettanto nettamente concluso «senza alcuna esitazione» di non avere trovato alcuna prova di una collusione tra Trump e i russi per condizionare l'esito del voto.
Ma le manovre ci furono, dice la commissione. Ed è qui che appare Mifsud. Perché il professore maltese è il contatto diretto di George Papadopoulos, collaboratore della campagna elettorale di Trump, cui la relazione dedica ben sessanta pagine (da 464 a 524) del suo quinto e ultimo volume. Papadopoulos accusa da sempre Mifsud di avergli teso una trappola proponendogli delle mail di Hillary Clinton che in apparenza compromettevano la rivale di Trump, ma erano destinate in realtà a ritorcersi contro il candidato repubblicano, che sarebbe stato accusato di utilizzare materiale proveniente da Mosca. Papadopoulos sostiene che in questa operazione Mifsud aveva avuto la collaborazione dei servizi segreti italiani, decisi, con l'allora premier Matteo Renzi, ad aiutare gli amici della Cia vicini al presidente uscente Barack Obama.
Ora la commissione guidata dal repubblicano Rubio e dal democratico Warner riscrive la storia.
A pagina 465 del volume, si afferma come i rapporti di Papadopoulos con Mifsud fossero altamente sospetti e che Mifsud mostrava capacità e metodi da agente segreto, e non si mostrano dubbi sui suoi datori di lavoro: «Mifsud era al corrente di aspetti della campagna russa sulle elezioni del 2016» e le date delle sue rivelazioni a Papadoupolos sulle mail di Hillary coincidono con le incursioni informatiche del Gru nei server del comitato nazionale democratico, «molte settimane prima che qualunque informazione venisse resa pubblica. Inoltre le sue informazioni coincidevano con il progetto del Gru di danneggiare la candidatura di Hillary Clinton». Ma ora dove è finita la spia venuta dal freddo?
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