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Sentenze ignorate, calunniatori e filoni nuovi. Perché il super-processo non stava in piedi

Altro che "ne bis in idem", si è insistito su temi d'accusa per i quali Mori e Mannino erano già stati assolti. È crollato il testimone chiave Ciancimino

Sentenze ignorate, calunniatori e filoni nuovi. Perché il super-processo non stava in piedi

Sei anni di processo di primo grado, altri due di processo d'appello. Per non parlare di tutta la fase preliminare d'indagine, cominciata da Antonio Ingroia quando ancora indossava la toga, proseguita da Nino Di Matteo, oggi al Csm. Oltre un decennio speso a dare la caccia a «un fatto che non costituisce reato», per dirlo con la sentenza di due giorni fa. Eppure, a volerli guardare, gli elementi che non reggevano c'erano, eccome se c'erano. Bastava leggere le sentenze assolutorie (8 pronunciamenti in tutto, compreso quello di giovedì) dell'ex ministro Calogero Mannino e del generale Mario Mori, tutte acquisite e tutte agli atti.

A cominciare dalle più antiche, quelle al prefetto Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 in un casolare di campagna in cui si teneva un summit, a Mezzojuso. Quella su Riina risale al 2006, il processo trattativa non era ancora nato (e tanto era granitica che l'allora pm Ingroia decise di non fare appello), L'altra un po' più recente, è diventata definitiva nel 2017.

Identico discorso per la sentenza assolutoria dell'ex ministro Calogero Mannino, definitiva da un anno. Mannino, che ha scelto il rito abbreviato per il processo trattativa, è stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. Eppure nell'impostazione dell'accusa nulla è cambiato rispetto al ruolo, smentito per sentenza, dell'ex ministro. E neppure rispetto alle accuse ai generali Mori e Subranni e al colonnello De Donno.

Anche una sentenza di condanna agli atti, quella dell'ex senatore Marcello Dell'Utri, era istruttiva, molto. E avrebbe dovuto essere presa in considerazione. Dell'Utri infatti è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti al 1992. Qui invece gli si assegna un ruolo di tramite delle minacce della mafia a Berlusconi tra il '93 e il '94. Peccato che non ce ne sia prova alcuna. E peccato che ci sia invece la controprova. Come ha detto in arringa l'avvocato di Dell'Utri, Francesco Centonze non c'è una prova che sia una «che ci sia stato un solo provvedimento legislativo, una norma, un codicillo varato dal governo Berlusconi favorevole a Cosa nostra». Dell'Utri, per la cronaca, è stato assolto «per non aver commesso il fatto».

Gran parte delle accuse si sono poi sviluppate sulle dichiarazioni a rate di Massimo Ciancimino, l'ex supertestimone che alla fine si è beccato una condanna per calunnia (poi caduta in prescrizione). Ricordate i chili di «pizzini» portati in Aula? C'era persino il celebre «papello», il padre di tutti i pizzini, la prova documentale che la trattativa ci fu. Peccato che sia stato accertato che era proprio un falso, magari con contenuti realistici ma falso.

Infine, un filone inesplorato, quello delle indagini che Paolo Borsellino conduceva sul rapporto Mafia e appalti del Ros. In primo grado la testimonianza di Antonio Di Pietro, invocata dalla difesa, non era stata ammessa: «superflua». In questo processo d'appello invece è arrivata. E va in rotta di collisione, ha ricordato in arringa l'avvocato di Mori, Basilio Milio, con la tesi accusatoria che ad accelerare l'uccisione di Borsellino sia stata la trattativa. Già, perché parla dell'interesse di Borsellino per quel rapporto e per quelle indagini. Interesse che le sentenze di Caltanissetta e di Catania sulla strage di Capaci individuano come acceleratore della sua uccisione.

Altro che trattativa.

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