Silvio Berlusconi ha ragione a dire che il programma di Renzi per quanto innovatore non basta. In esso infatti non c'è abbastanza libertà economica e ciò incide sulla crescita italiana, minuscola, solo per lo 0,2-0,3% del Pil quest'anno, che diverge da quella europea. Sono emblematici di questa mancanza di libertà economica l'accordo Alitalia-Etihad bloccato da veti sindacali fra loro contrastanti e la paralisi, per scioperi ad oltranza del Teatro dell'Opera di Roma, che rischia la chiusura definitiva.
Entrambi questi eventi mortificano la nostra società, facendo degradare Roma a unica capitale senza Teatro e l'Italia a unico Stato senza una compagnia aerea nazionale e incidono sul nostro sviluppo economico negativamente. Infatti ne soffrono turismo, cultura e trasporti che sono motori di crescita e occupazione. È di questi giorni l'impietosa analisi del Fondo monetario che per l'Italia prevede, per il 2014, solo una crescita dello 0,3% del Pil contro l'1,1 dell'Eurozona, l'1,9 della Germania e l'1,2 della Spagna. Solo la Francia, fra gli Stati importanti, cresce meno dell'1%. Ma la previsione per essa è comunque dello 0,7. Il Markit Pmi Index dell'industria manifatturiera (un indice del Centro internazionale Markit di Londra) per luglio è a livello 51,9%: il più alto da due mesi; quello tedesco 52,9%, il più alto da tre mesi. Quello francese a 47,6 è il più basso da otto mesi.
Il Wall Street Journal osserva che l'Unione europea ha un trend di crescita modesto doppiamente divergente. Nell'Eurozona Germania e Spagna sono notevolmente sopra la media, Francia e Italia arrancano sotto. Oltre a questa divergenza, entro la moneta unica, ce ne è un'altra fra questa e l'Unione europea fuori euro: Regno Unito e paesi dell'Est europeo crescono di più. È il diverso modello economico, con meno potere di veto dei sindacati, meno regole, meno tasse, che spiega la divergenza. Il Wall Street Journal osserva giustamente che l'assicurazione di Draghi che la Bce farà di tutto per impedire che la moneta unica crolli non può bastare e che i paesi dell'euro fanno troppo affidamento sulla Bce. Occorrono le riforme, aggiunge il giornale dal suo osservatorio indipendente e con ciò allude soprattutto a quella del mercato del lavoro e a quella fiscale. Si può, ovviamente, osservare che una delle ragioni per cui l'Italia arranca è che le nostre imprese perdono colpi nel mercato internazionale, perché il credito è caro e limitato e perché il cambio dell'euro è artificialmente elevato (penso che la sopravvalutazione sia attorno al 10%, circa 13 punti).
L'espansione del credito che Draghi aveva messo in cantiere per la primavera è posticipata a ottobre, perché la Germania l'ha frenata, ma la Bce avrebbe potuto superare il veto tedesco, se noi avessimo attuato la riforma del mercato del lavoro, nel senso della flessibilità che la stessa Bce oltre che Bruxelles da tempi ci richiede. E resta il fatto che la Spagna, con il suo mercato del lavoro flessibili cresce più di noi, perché ha incrementato l'export di più, nonostante abbia un'industria molto meno avanzata. Ma in Spagna il costo del lavoro per unità di prodotto dal 2010 è sceso del 7%, in Italia è aumentato del 4,3. È un miracolo, dovuto alla ingegnosità delle nostre imprese se siamo riusciti a fra crescere l'export di 2 punti sul Pil, portandole al 30,4%.
Ci si lamenta che il Meridione, come segnala la Confindustria, ha una situazione dell'industria e dell'occupazione molto peggiore di quella media nazionale.
Ma come fa il nostro Sud a competere con la concorrenza internazionale senza la possibilità di adottare i contratti aziendali flessibili e della legge Biagi aboliti dalla Fornero? Quando sarà possibile per le imprese firmare contratti aziendali con chi ci sta, senza bisogno di subire i veti di Susanna Camusso della Cgil, le bizze della Uil e gli ondeggiamenti della Cisl e delle nuove sigle e la minaccia di scioperi a oltranza?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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