Il conto alla rovescia è iniziato. Salvo ripensamenti sabato 12 maggio, Donald Trump farà a pezzi l'accordo sul nucleare con l'Iran firmato nel 2015 da Barack Obama. Un accordo definito da Trump «insano» e «ridicolo». Ma che succederà l'indomani? Le previsioni dei protagonisti sono da incubo. «Abbiamo piani per resistere a qualsiasi decisione. gli Stati Uniti se ne pentiranno», avverte il presidente iraniano Hassan Rouhani dicendosi pronto ad affrontare qualsiasi minaccia americana. E neanche Bibi Netanyahu va giù leggero. «Meglio ora che troppo tardi», sostiene il premier israeliano ipotizzando un imminente conflitto con la Repubblica Islamica. La cancellazione dell'accordo spinge dunque il Medio Oriente verso un conflitto devastante. Un conflitto in cui è facile individuare i protagonisti. Con l'America di Trump stanno sia Israele sia le nazioni sunnite, Arabia Saudita in testa. Con l'Iran sono schierati Siria, Irak, milizie sciite di Hezbollah e quell'ala militare di Hamas legata a doppio filo a Teheran nonostante l'appartenenza alla galassia sunnita. Lo scontro minaccia quindi di estendersi dall'Iran all'Irak e dalla Siria fino al Libano e ad Israele. Un'anticipazione di quella guerra, combattuta non a colpi di missili, ma di voti, si è svolta ieri in Libano. Le prime elezioni in nove anni hanno visto lo scontro tra Saad Hariri, il premier uscente portavoce del blocco sunnita e filo-saudita, e Hezbollah, la milizia sciita diventata il reggente occulto del Paese. I risultati del voto - che sembra delineare un ulteriore indebolimento della compagine sunnita e il rafforzamento dell'alleanza filo iraniana guidata da Hezbollah e dal presidente cristiano Michel Aoun, non cambierà gli assetti del Libano, ma rischia di spingerlo ancor più nel mirino d'Israele. Uno scontro segnato dal lancio di missili di Hezbollah contro lo Stato ebraico innescherebbe l'inevitabile rappresaglia con effetti - fanno intendere i vertici israeliani - assai più devastanti dei bombardamenti messi a segno durante la guerra contro miliziani sciiti del 2006. In questo plumbeo scenario non va però sottovalutato il ruolo di Vladimir Putin. Mercoledì, a soli tre giorni dalle decisioni di Trump, il presidente russo incontra a Mosca Netanyahu, invitato alle celebrazioni nell'anniversario della vittoria sul nazismo. Mentre le celebrazioni salutano anche l'inizio del quarto mandato del presidente, l'incontro con Bibi anticipa il ruolo di grande mediatore che Putin vuole ritagliarsi in questo nuovo sessennio.
Grazie alla presenza in Siria e ai buoni rapporti sia con Israele, sia con gli ayatollah, sia con i sauditi Putin è l'unico vero ago della bilancia capace di mediare con Teheran come con Gerusalemme. Ecco perché Trump stracciando l'accordo sul nucleare rischia paradossalmente di regalare a Putin ancor più spazio sul fronte mediorientale ed accrescere indirettamente la sua statura di leader internazionale.
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