Sfrattata con i tre figli dalla casa famiglia Ci mettono i profughi

Il comune di Livorno, a guida 5 Stelle, vuole trasformare la struttura in centro per esuli

Sfrattata con i tre figli dalla casa famiglia Ci mettono i profughi

Erano finiti all'ospedale in sei: la mamma, quattro minori e il compagno di lei, dopo una colluttazione con un extracomunitario ospite dell'edificio in cui vivono. Ora Chiara Bosi, livornese, madre di tre figli, sarebbe stata minacciata dagli assistenti sociali che la seguono: vogliono cacciarla dalla struttura che la ospita, «Il Melo», una casa famiglia per nuclei composti da mamme e minori e oggi quasi del tutto abitata da migranti.

Per appoggiare la sua battaglia a Livorno era arrivato anche il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini. Chiara ha tempo fino a lunedì, poi si troverà in mezzo a una strada. Il Comune di Livorno, governato dal sindaco pentastellato Filippo Nogarin, a quanto pare vuol cambiare la destinazione d'uso dell'immobile da casa famiglia a centro profughi. «Costa troppo», azzarda qualcuno, «per cui l'amministrazione preferisce adibire quell'edificio all'accoglienza dei migranti, almeno ci guadagna».

Una residenza circondata da un giardino, annessa all'asilo nido «Piccolo principe», lo stesso frequentato dalla figlia del primo cittadino. A Chiara Bosi il Comune ha proposto una soluzione abitativa diversa, vista l'incompatibilità con gli extracomunitari che convivono con lei e i suoi figli. Alla donna è stato chiesto di trasferirsi in una zona piuttosto centrale di Livorno, dove però andrebbe ad abitare in poco meno di 12 metri quadri. Una stanzetta con bagno in cui lei e i tre figli, di cui uno di pochi mesi, dovrebbero vivere ammassati.

«Ma qui spiega Chiara non c'entrano neanche due letti, figuriamoci quattro e la cucina. Peraltro non è una stanza ammobiliata». Chiara ha rifiutato, per cui dovrà andare via anche dal Melo. All'interno dello stesso «centro per donne», come lo ha definito l'assessore al sociale del Comune di Livorno, Ina Dhimgjini, abitano altre tre famiglie: Giada Lonzi, 38 anni, una mamma col figlio di 10 anni, che da due anni sopravvivono in 10 metri quadri, cucinano con un fornellino a gas e lavano i piatti nel lavandino del bagno, un'altra mamma straniera, con una bambina, sempre in nove metri quadri e Stella Nwabueze, extracomunitaria che dorme in una stanza con i tre figli e un solo letto matrimoniale. I piatti li tengono in un mobile posto nel cortile esterno, perché in casa non c'entrano. Alle pareti muffa, sul soffitto una lampadina che penzola, coi fili scoperti e poi umidità ovunque. E per tutto questo pagano circa 70 euro di utenze ogni bimestre. Una «soluzione» non certo adatta a dei bambini.

L'assessore Dhimgjini ha chiarito che «la signora Bosi non è in una situazione di emergenza abitativa, ma all'interno di un programma al quale non ha mai risposto», riferendosi al fatto che Chiara continua a lamentarsi senza sosta delle condizioni in cui deve vivere. La soluzione proposta nell'alloggio gestito dall'Arci, però, è totalmente fuori legge. Il decreto ministeriale del 5 luglio 1975 impone infatti che «per ogni abitante deve essere assicurata una superficie abitabile non inferiore a 14 metri quadri per i primi 4 abitanti e a 10 per ciascuno dei successivi». Mentre, secondo quanto prevede la legge regionale, per le case di accoglienza è previsto che sia assicurata «la massima fruibilità degli spazi interni». E la struttura di via Carducci non rispetta questi requisiti. «È incredibile spiega il commissario della Lega Nord di Livorno Cheti Cafissi come per extracomunitari e italiani ci siano due pesi e due misure.

Credo che la Procura della Repubblica dovrebbe intervenire e aprire un'indagine a carico dell'amministrazione comunale di Livorno per verificare la tipologia di alloggi destinati sia all'emergenza abitativa che al recupero sociale».

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