Cronache

Si torna a casa dopo l'armistizio di agosto come pazienti diretti alla sala operatoria...

Torelli: «Vacanze finite, ci aspettano scioperi e polemiche. Dobbiamo proprio rientrare?»

Si torna a casa dopo l'armistizio di agosto come pazienti diretti alla sala operatoria...

Eravamo arrivati tardi in vacanza e, adesso, siamo gli ultimi ad andar via. Si allargano indiscussi silenzi nelle abetaie, la valle s'ispira al sole analcolico di settembre, neanche più un grido di giochi, gitanti esauriti, funivie come scatole di latta, il bollettino di guerra annunciato alla radio delle otto dice: Alfaromeo occupata. Ci siamo. Che si fa? Si va in città o si resta definitivamente? Si telegrafa a Milano: vendete tutto e inviate l'importo qui, o si riparte per la mosca cieca, un governo complessato e un governo che ruggisce dall'ombra, una periferia colma d'intrighi e il centro sotto tiro, il presidente che mette il messaggio in bella al Quirinale mentre tutti i cani da guardia abbaiano? E se permanessimo in montagna contentandoci di poco? Oltretutto io non ho niente da vendere e nessuno cui telegrafare disposizioni. Cos'è, che tipo d'obbligo è mai diventato questo del correre là dove si vede e si sente che ci saranno mischie, si vedranno Orazi contro Curiazi, e il malessere prodigherà febbri e sudori?

Eppure si partirà, sono partiti tutti gli amici che vivevano con me l'armistizio d'agosto, nessuno s'è travestito da larice per sommarsi alla foresta e viverne l'autentico ritmo comunitario. Quest'Italia è anche nostra, dicevano forte, se gli altri sono tanti noi siamo almeno un milione in più. Partivano dritti, silenziosi, lo sguardo avanti, più avanti della strada che imboccavano o del treno su cui salivano. Gli si sarebbe giudicati viaggiatori diretti a una frontiera. Ricordavano le fisionomie del volontariato. Andavano e basta. Ciascuno di loro lasciava parole dette adagio, depositate sul tavolo, ciottoli: auguri, chissà se quest'altra estate saremo ancora qui, volerlo dovrebbe bastare, scriviamoci, non lasciamo che ci ricopra l'inverno. Mai come in questo declino d'estate ho veduto abbracci cosi veri e senza alcuna oziosa festosità di superficie. Significavano: qui sul mio cuore. Era quel genere di congedo pensoso che si riservano, dal lettino a rotelle, i degenti avviati in sala operatoria. Ciascuno di noi ne ha certo conosciuto il disagio sentimentale. La sala non si vede ancora, è di là da un muro. Ma qualcosa, di cui s'ignorano gli sviluppi, sta per accadere. Ipotizzarli sconcerta, il decorso sarà inevitabilmente lungo, le pareti bianchissime sembrano tempestate di paroline rotonde e nere, formano un intrico fittissimo, ad avvicinarsi si possono anche leggere: ripetono all'infinito un chissà scritto a penna, chissà, chissà. Il malato varca il muro, le porte si serrano dietro il suo giaciglio che cigola sempre più fiocamente. Ho avuto una quasi identica impressione salutando, ai convogli diretti dalle Dolomiti in Lombardia o nel Lazio, gli amici già vestiti da città, i pullover impaginati nelle valigie, la fredda cornice del finestrino attorno alla figura ferma.

Ne ripasso le voci negli stessi luoghi dove siamo stati uniti in attesa di giudizio storico. Uno diceva ogni mattina: «Siamo davanti a un fiume che s'ingrossa e corre verso i rovesci di una cascata. Tutti i corsi d'acqua pura o inquinata schiumano; sembrano non volere altro che gettarsi sonoramente in quel letto. Se il fiume avesse validi argini, non m'impensierirebbe. Ma se una tale limacciosa petizione di giustizia, di ordine, di sviluppo che non sia inganno corre, come sta correndo, tra sponde di cartapesta, mi terrorizza. Qualunque alluvione diviene possibile. L'acqua italiana sale, si cerca di contenerla con trincee di sacchetti a sabbia, non basterà. Per questo torno in città, al mio lavoro, a un impegno che capisco essere l'ultimo, il decisivo: vado a rinforzare gli argini, a dar retta ai competenti d'idraulica non ancora storditi dall'ideologia o dal tornaconto. Non domandatemi se c'è tempo. Se anche non ci fosse, andrei lo stesso».

E, altrettanto, dicevano il preside, il diplomatico, il responsabile di un ganglio civile, la madre di famiglia, l'insegnante di scuola media, il radiologo, il medico della mutua, il penalista: tutti ripetendo il concetto senza sapere dell'altro che aveva detto, un momento prima, la stessa cosa: «Ci sia dato un punto di riferimento, non siamo ancora battuti, vogliamo degli obiettivi immediati, dov'è un Sandokan democristiano che ci levi dalla palude dell'intimidazione? Chi ha il potere, se ne serva, infine, per illustrare la propria coscienza. Il potere è ancora democratico. Basta osare per governare. E se il grande intrigo non lo consente, ecco la straordinaria occasione offerta a un uomo pubblico per mettere in piazza tutto e tutti suonando le campane a martello. Gli ultimi democratici le suonino se sono da suonare. Si appendano alle corde, ci si avvinghino». Serravano le mascelle insistendo, ribadendo. Finché, un bel mattino, prendevano congedo.

Domani partirò anch'io. Mi aggiro in solitudine, do calcetti alle pigne. Per ora, non suonano che le campane della parrocchia, dev'essere mezzogiorno, l'ala del bronzo si distende sui boschi fino a lambirmi e svanire. Subito dopo, non si sentono che le api, così indistinte, così operose, così popolo, così tentatrici. Dio mio. Ma se non mi sono fatto larice, che mi faccio, adesso, ape e volo via nella limitrofa repubblica austriaca?

2 settembre 1975

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