
Paese senza è il titolo di uno spettacolare libro di Alberto Arbasino. Era un campionario di orrori e mancanze culturali-politico-artistiche dell'Italia anni Settanta, Ottanta e Novanta. Pubblicato nel 1980, fu aggiornato nel 1990. Ma siamo ancora un Paese senza: il maestro pavese, se volesse, avrebbe molto materiale a disposizione. Siamo un Paese senza governo. Le liti interne alla maggioranza non si sono arrestate con le elezioni europee. Anzi, è guerra aperta. Risultato: siamo un Paese senza una chiara politica economica, che oscilla tra i due estremi, la flat tax liberista e il reddito di cittadinanza assistenzialista. Siamo un Paese senza opposizione. Il Partito democratico è assorbito da problemi ininfluenti per il Paese nel suo complesso. L'agenda è questa: tornare al passato nel tentativo di recuperare almeno il consenso degli ex comunisti; puntare sulla retorica dell'accoglienza per attrarre intellettuali, studenti, comunisti col Rolex. Tutto il resto? Boh. Siamo un Paese senza esercito. Meglio: l'esercito c'è ma in rotta di collisione col ministro della Difesa Elisabetta Trenta. La pacifista grillina è riuscita a far volare gli stracci anche nelle caserme. Siamo un Paese senza magistratura. Le recenti indagini sul Csm e la spartizione delle nomine in accordo col potere politico potranno pure finire nel nulla. Forse non ci sarà nulla di penalmente rilevante. Tuttavia il danno d'immagine è già irreparabile. L'autorevolezza dell'istituzione è stata trascinata nella polvere. Siamo un Paese senza istruzione. Come scrive Ernesto Galli della Loggia in Aule vuote (Marsilio) la scuola è stata smontata pezzo per pezzo. Quello che c'era di buono, ed era tanto, è stato sacrificato sull'altare della didattica e della pedagogia. Grandi propositi, magri risultati. Ogni ministro ha voluto fare la propria riforma, sempre peggiorativa oppure rimasta inapplicata a causa dell'ostruzionismo della burocrazia ministeriale. Siamo un Paese senza peso nell'Unione europea. Le ventilate alleanze «sovraniste» sembrano già sfumate. Il gruppone populista rischia di essere soltanto un gruppetto, quinto per dimensioni all'interno del Parlamento di Bruxelles. Da questa posizione è velleitario indirizzare la politica economica della Commissione.
Resta il presidente Sergio Mattarella, che finora ha fatto l'arbitro, senza esagerare per
protagonismo (e carisma). Con tutto il rispetto, non è sufficiente. Nel Paese senza chi produce, lavora e fa figli non sa da che parte guardare per tirarsi fuori da questo pantano. Stiamo diventando anche un Paese senza speranza.
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