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La sinistra cambia eroi: da Fidel al Lussemburgo

La sinistra cambia eroi: da Fidel al Lussemburgo

Jean Asselborn è il nuovo mito del Lussemburgo. E non soltanto. Gli è bastato un merde alors per offuscare la fama di John Grun, l'uomo più forte del mondo, in memoria del quale venne eretta una statua nella città nativa di Mondorf-les-Bains. Grun era capace di sollevare blocchi di ferro pesantissimi, di spostare, senza fatica, barili carichi di birra, diventando, così, celebre all'estero, esibendo la propria forza nei circhi di ogni dove. Un secolo dopo, attraversato dalle imprese sportive di Joseph Barthel, primo e unico oro olimpico del Paese, nei mille e cinquecento piani ai Giochi di Helsinki nel '52 e dalle imprese di Charlie Gaul e Andy Schleck, che nel ciclismo hanno scritto pagine eroiche e vincenti per la storia del Lussemburgo, Jean Asselborn si è risvegliato all'alba di Vienna come una leggenda vera, ultima nel tempo ma prima nella cronaca. Gli è bastata l'imprecazione cambronnesca per entrare nella narrazione e diventare il simbolo dell'angelo contro il diavolo, al secolo Salvini Matteo e tutto quello che rappresenta. Una parola sola ma decisiva per far risorgere dal torpore i depositari della sinistra dolce e intellettualoide, quella che sventolava il libretto di Mao, la stessa che fumava i sigari cubani insieme con i barbudos e il compagno Fidel, quella che accarezzava Tony Blair e la sua candida camicia laburista e ancora si scalda per un Maduro di giornata o il Lula prigioniero, abbracciato dal lider minimo-massimo D'Alema, il popolo genuflesso davanti al Minotauro di Varoufakis, i capalbiesi ridicolizzati da Roberto D'Agostino, insomma quella roba lì che usa il ventaglio per allontanare il fetore della destra ma anche, guarda un po' le combinazioni, dei rifugiati allontanati o evitati come la zanzare tigre.

Jean Asselborn, dunque, a sua insaputa, è l'uomo del presente e del futuro gauchiste; il suo poster, con quelle gote imporporate dal sole lussemburghese, diventa l'oggetto di cult da innalzare in qualunque manifestazione, la sua imprecazione vale un «Oui, Je suis Asselborn». Roba piccola, spacciata per grande, ormai non c'è più limite alla creatività ideologica, alla propaganda da assemblea liceale.

Il ministro degli esteri del Gran Ducato ha paragonato i disperati che approdano lungo le nostre coste agli emigranti italiani traslocati in Lussemburgo negli anni 60, dimenticando forse alcune note non proprio di margine: la popolazione straniera residente in Lussemburgo supera il 47% ma è composta da cittadini europei, portoghesi, italiani, tedeschi, belgi, francesi che, risulta, non abbiano goduto di alcun emolumento quotidiano, dal cellulare alla gratuita dimora in albergo, l'offerta di lavoro del Paese serviva e serve a soddisfare questo popolo di «stranieri» integrati e non certo vagabondi o clandestini.

Dice un proverbio lussemburghese: più sei piccolo più devi saltare in alto per farti vedere. John Grun sapeva mostrare i muscoli, sollevava macigni e spezzava, in due, libri e mazzi di carte. Non avendo la forza dell'illustre compatriota, Jean Asselborn ha scaldato il popolo del circo di sinistra, soltanto aprendo la bocca.

Credo che si meriti un applauso e una dedica: merde alors.

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