Per il Pd di Enrico Letta, il rapporto con Giuseppe Conte è diventato una trincea fangosa in cui si rischia di affondare a ogni passo. I giudizi che qualsiasi dirigente dem, a microfoni spenti, esprime sul capo dei 5 Stelle sono durissimi, e molto preoccupati: «Siamo sull'autobus di un'alleanza con uno che non solo non sa guidare, ma che è deciso a imboccare l'autostrada contromano», dice uno di loro. «Conte sta creando un problema enorme agli stessi grillini: li spinge su una linea estremista e irresponsabile, con l'unico risultato di fargli perdere consensi nei sondaggi, come la Lega», nota un esponente della segreteria, «mentre i nostri numeri dimostrano che è il sostegno leale a Draghi a pagare».
La linea fermamente atlantista e schierata con il governo che il Pd ha imboccato fin dall'inizio della crisi provocata dall'aggressione russa all'Ucraina ha rafforzato il partito nei sondaggi, ma sta anche provocando un forte contraccolpo nella sua politica di alleanze: il baricentro del «campo largo», che era il patto dem-Cinque Stelle, è saltato. Letta e Conte non sono mai stati così lontani, nemmeno nei giorni del voto per il Colle in cui l'avvocato di Volturara Appula faceva inciuci con Salvini alle spalle del Pd. In questi giorni, con l'improvvisa giravolta anti-Nato di Conte, che ancora ieri giurava «no a ogni aumento delle spese militari», si è oltrepassato il livello di guardia.
«È un Salvini che invece di mettersi la t-shirt di Putin tiene la foto del dittatore nel taschino del doppiopetto», sibila un senatore. Il Pd si affanna a cercare mediazioni in vista del voto di mercoledì in Senato su questo tema, per evitare una spaccatura plateale. Piero Fassino taglia corto: «Se M5s non votasse l'ordine del giorno sulle spese militari, la maggioranza c'è lo stesso. Dobbiamo liberarci dalla sindrome per cui da ogni voto dipende la maggioranza di governo».
Intanto il Pd punta le sue carte su Luigi Di Maio, che ha preso platealmente le distanze da Conte, e spera che a dettare le mosse scomposte dell'ex premier sia solo «un problema di rilegittimazione interna», e che una volta confermato come candidato unico dal plebiscito online del suo partito, l'avvocato ritrovi «un filo di lucidità politica».
Quanto al «campo largo», alle prossime amministrative gli accordi saranno (se ci saranno) a macchia di leopardo, anche se nessuno ha ancora il quadro preciso: «Del resto, a parte qualche residuale area del Sud, M5s elettoralmente non contano nulla: andiamo meglio da soli, alleandoci con liste civiche e dove possibile con il centro di Renzi e Calenda», dicono al Nazareno.
Il problema diventa assai più complesso in vista delle future elezioni politiche, tanto più che nel Pd c'è la convinzione che Matteo Renzi accetterà l'alleanza in cambio di alcuni collegi per i suoi, ma Carlo Calenda «proverà ad andare per conto proprio come terzo polo, portandoci via voti». Nessuno ormai crede più che la legge elettorale verrà cambiata: non ci sono i tempi, tanto più con la guerra e la crisi a dominare il discorso pubblico, e comunque Letta ha finora puntato tutto sul mantenimento del Rosatellum, che con la sua quota di collegi uninominali impone di fare le coalizioni prima del voto. E infatti il segretario continua - in pubblico - ad usare toni morbidi nei confronti di Conte: «Una soluzione si troverà», assicura. In privato confida: «Non riesco proprio a capire il senso politico delle sue mosse».
Per ora la sua linea resta quella di tenere insieme tutto il possibile per sfidare (da aspirante candidato premier) il centrodestra: dalla sinistra estrema - l'altro giorno era al congresso dei nostalgici dell'Urss di Anpi - a Leu (che Speranza e Bersani tentano di tenere su una linea filo-Occidente) al centro di Renzi e Calenda. Con il timore che «nei prossimi mesi la guerra provochi un big bang totale dello scenario politico».
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