Roma - Ieri dalle colonne di Repubblica è giunto l'ennesimo appello di Confindustria a favore del Sì. Il numero uno di viale dell'Astronomia, Vincenzo Boccia, ha dichiarato che «la vittoria del No sarebbe un segnale che l'Italia non vuole cambiare», mentre «le imprese devono poter contare su un assetto istituzionale semplice, altrimenti la macchina degli investimenti non riparte». Uno spot maldigerito dal vice presidente leghista del Senato, Roberto Calderoli, che ha denunciato il disinteresse di Confindustria per i pessimi dati economici segnalati dall'Istat e auspicato che «il 5 dicembre, quando i No avranno vinto, insieme alle dimissioni di Renzi ci aspettiamo anche quelle di Boccia e degli omologhi che si sono schierati smaccatamente a sostegno del governo Renzi».
Ma il mondo delle aziende è tutto compatto per il Sì solo perché Renzi ha elargito sgravi a destra e a manca? No, esiste la Confimprenditori, guidata da Stefano Ruvolo, che da mesi ha annunciato la propria contrarietà alle riforme del ddl Boschi. «Sostenere che un'eventuale vittoria del No determinerebbe ricadute negative di lunga durata sull'economia reale è quanto meno azzardato», esordisce Ruvolo.
Anche se ieri Boccia ha un po' abbassato i toni, non ha di certo sconfessato in toto le stime apocalittiche di luglio quando gli industriali predissero, in caso di sconfitta del Sì, la perdita di 4 punti di Pil, pari a 589 euro a testa, e 430mila nuovi poveri. «La realtà è che lo studio di Confindustria si basa su uno scenario negativo come quello del 2011», osserva il presidente di Confimprenditori sottolineando che «mercati e imprese sanno benissimo che il respingimento di riforme istituzionali e la formazione di nuovi governi sono una prassi normale e consolidata». Insomma, precisa Ruvolo, «nessuno ha interesse a far saltare il banco per la bocciatura di una riforma priva di effetti sostanziali sull'economia reale e, da parte loro le imprese non smetterebbero di investire e produrre», come invece ha paventato Boccia in caso di dimissioni di Renzi.
Sgombrato il campo da questa forzatura restano motivi di prudenza politica per dire No. «E non perché la Costituzione italiana sia immodificabile, ma perché si cambiano 47 articoli della Carta a maggioranza e in un solo colpo e proprio in quella seconda parte della Costituzione, più propriamente liberale, dove si stabiliscono quelle garanzie istituzionali per cittadini e corpi intermedi rispetto allo strapotere dei governi». Sottinteso: sponsorizzando Renzi, viale dell'Astronomia rinuncia la proprio Dna liberale. «Il bicameralismo si poteva superare in varie maniere ma temo si sia scelto il peggiore: la bilancia dei poteri verrebbe affidata nel nuovo Senato alla classe politica regionale, mentre l'Italicum assegna un mostruoso premio di maggioranza», chiosa rimarcando lo «squilibrio dei poteri» che si creerebbe.
«Ciò che preme alle imprese, soprattutto alle pmi, è avere una voce in capitolo sulle scelte di politica economica», ricorda Ruvolo precisando che «questa riforma non prevede uno spazio di confronto tra ceti produttivi e potere legislativo ed esecutivo».
Ultimo ma non meno importante: i costi della politica.
«Per rimediare agli errori della riforma del Titolo V si riportano in capo allo Stato le principali competenze regionali, anche da dove esistono, per esempio nella sanità, modelli di efficienza», conclude evidenziando che «ricentralizzare in queste Regioni significherebbe portare inefficienza e costi mentre sono risparmiate le autonomie speciali gravemente inefficienti». Il centralismo, secondo Confimprenditori, produrrà costi molto più alti dei risparmi ottenuti con il taglio di qualche parlamentare.
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