Il grido d'aiuto dell'Italia risuona, ancora una volta, nel deserto dell'Unione Europea. Non è bastata la minaccia di chiudere i porti alle Ong straniere che operano nel Mediterraneo e che scaricano i migranti solo sulle nostre coste. Le rassicurazioni arrivate negli ultimi giorni dalle parole dei leader europei, da Merkel a Macron, restano acrobazie diplomatiche. Con buona pace di chi, come il premier Paolo Gentiloni e il capo del Viminale Marco Minniti, confidava in «risposte concrete» da mettere nero su bianco al prossimo vertice informale dei ministri dell'Interno Ue il 6 e 7 luglio a Tallinn, in Estonia. Proprio dal Paese che assumerà la guida del semestre europeo e che presiederà la riunione ieri è arrivata la doccia fredda: il ministro Andres Anvelt ha chiarito che a Tallin «non daremo nessuna risposta all'Italia, ascolteremo solo quali sono stati i cambiamenti nell'ultima settimana». Sarà un tavolo interlocutorio su Libia e frontiere esterne, ma di fatto l'ennesimo ridimensionamento delle attese italiane nonostante gli 83mila migranti in sei mesi e un sistema di accoglienza al collasso. Eppure, solo poche ore prima era stato Jean Claude Juncker a ribadire la vicinanza e il sostegno della Commissione agli sforzi «eroici» di Italia e Grecia: «Non le lasceremo sole».
Anche la richiesta esasperata lanciata da Minniti di effettuare anche negli altri porti europei gli sbarchi dei migranti salvati dalle imbarcazioni che battono bandiera straniera rischia di cadere nel vuoto. A soli tre mesi dalla celebrazione dei 50 anni dei Trattati di Roma e dalle promettesse di una nuova stagione di unità, l'Italia continua a a fronteggiare da sola l'emergenza. Solitudine cronica, che non riguarda solo il nodo delle Ong e dei porti di sbarco. Perché anche qualora si raggiungesse un accordo per dirottare le navi verso altri moli europei, il sollievo italiano sarebbe limitato. Nel 2016 i migranti intercettati da queste imbarcazioni sono stati appena il 22% di tutti i salvataggi effettuati nel Mediterraneo (180mila), una «piccola porzione» rispetto alle operazioni della Marina italiana (26%) e della Guardia Costiera(20%). E non basterebbe nemmeno un impulso al meccanismo della cosiddetta relocation, cucito dall'Unione Europea non certo sulle esigenze italiane, dove le nazionalità d'origine dei migranti (Nigeria, Pakistan, Gambia) non sono quelle ammesse dai criteri di redistribuzione riservati a eritrei e siriani (appena il 13% degli sbarcati in Italia nel 2016).
Anche qualora gli altri Paesi si decidessero ad accogliere la quota per loro già stabilita, i prossimi potenziali beneficiari del programma di trasferimento dall'Italia sarebbero appena 800, come si legge nelle statistiche del Viminale. Briciole. Mentre il cuore del problema, il regolamento di Dublino, resta congelato. La riforma del sistema che condanna l'Italia in quanto Stato di primo approdo a farsi carico degli irregolari, è ancora incagliata nelle resistenze degli altri membri Ue. I negoziati per la revisione hanno accumulato «troppo ritardo» ha ammesso ieri il presidente della Commissione Ue, Juncker. Nella migliore delle ipotesi, se ne riparla nei «prossimi sei mesi». Per ora tutto rimandato.
Come la proposta di modifica del diritto di asilo, con la necessità di uniformare le regole che concedono la protezione internazionale ed evitare che i migranti si spostino da un Paese all'altro in cerca di condizioni di accoglienza più favorevoli. A oggi una lista comune di Paesi considerati «sicuri», dunque da escludere nelle domande di asilo, non c'è. L'Ue naviga a vista. L'Italia nella tempesta.
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