Lo spaventoso bombardamento dell'ospedale di Mariupol, con annessa devastazione del reparto maternità, è solo l'ultimo di una serie di atti d'aggressione da parte delle forze d'invasione russe contro civili inermi ucraini. Abbiamo già assistito al bombardamento di aree residenziali, all'attacco terroristico contro persone cui era stato promesso libero transito per abbandonare città devastate, all'uccisione indiscriminata di donne e bambini. È giunto il momento di chiamare queste azioni per quello che sono: crimini di guerra. Se Vladimir Putin non fosse il leader di una superpotenza nucleare ma un Milosevic qualsiasi, si sarebbe già ampiamente guadagnato il disonore di essere trascinato davanti a una Corte internazionale per risponderne davanti all'umanità intera. Si può invece permettere di esigere che la sua sporca guerra venga ipocritamente definita «operazione speciale», minacciando di galera chiunque, giornalisti o comuni cittadini, si azzardi a non obbedirgli. Putin, spalleggiato dal suo degno compagno cinese Xi Jinping che ancora ieri ha alzato i toni prendendo le sue difese ha varcato lo scorso 24 febbraio la linea rossa dell'illegalità. Quel giorno, nell'annunciare in perfetto stile hitleriano l'attacco all'alba all'Ucraina, coprì con una serie di grossolane falsità le sue vere intenzioni, che includevano purtroppo la volontà di massacrare il «popolo fratello» ucraino qualora avesse osato resistergli. Questo è accaduto, e siccome Putin non vuole e non può fermarsi continuerà ad accadere. Ma due cose ci devono essere chiare. La prima è che questo spaventoso sfoggio di brutalità non dovrà mai essergli perdonato, perché sarebbe ancor più immorale del fatto da lui compiuto: in un modo o nell'altro, dovrà risponderne.
La seconda è un monito per tutti noi: chi si comporta così dev'essere fermato per tempo, deve fallire nella sua impresa. Altrimenti, lui e il suo compare cinese si riterranno incoraggiati a proseguire in futuro anche altrove sulla strada della violenza criminale.
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