Leonardo da Vinci, Fermi, Meucci; Marconi, Avogadro, Galilei; Forlanini, Fibonacci, Volta, Lagrange, Majorana. È la nazionale italiana degli inventori. Categoria sempre aggiunta come postilla a quelle di poeti-santi-navigatori con cui il nostro popolo era identificato.
Ma è ancora così? Siamo ancora dotati di quella scintilla inventiva con cui spesso abbiamo compensato la mancanza di rigore e di sistema? I dati forniti dall'European Patent Office, l'organismo europeo che registra e tutela i brevetti a livello nazionale, nel report 2015 regala un timido sorriso al nostro Paese, che lo scorso anno ha presentato 3979 richieste di brevetto, con un aumento di 330 rispetto al 2014 (+9 per cento). Un aumento che ci consente di superare la Svezia e di agganciare l'ultimo posto della «top ten», che vede in testa con 42.692 brevetti applicati gli Usa, seguiti al secondo posto dalla Germania e dal terzo dal Giappone. Seguono Francia, Paesi Bassi, Svizzera, Corea del Sud, Cina e Regno Unito.
In pratica l'Italia è al sesto posto europeo, ma se si pondera il numero dei brevetti con la popolazione finiamo molto indietro in classifica. Tra le nazioni della nostra dimensione, la Germania vanta 3,02 brevetti registrati ogni 10mila abitanti, la Francia 1,73, il Regno Unito 0,82 e l'Italia appena 0,65. In pratica superiamo soltanto la Spagna con 0,33. Se poi teniamo in considerazione anche le nazioni medie o piccole facciamo veramente la figura degli ultimi della classe. I Paesi Bassi ci stracciano con 4,28 brevetti europei ogni 10mila abitanti, la Svizzera ci umilia con 9,37, la Svezia ci sta largamente davanti con 4,15. E anche Belgio (1,92), Finlandia (3,76), Austria (2,38), Danimarca (3,53), Irlanda (1,29) e Lussemburgo (addirittura 8,31) sono ben davanti a noi.
Insomma, no. Non siamo più un popolo di geni. E non pensate di agitare il classico cliché giornalistico dei cervelli in fuga. L'Epo infatti conteggia la nazione dell'inventore, a prescindere dal Paese in cui il brevetto è stato registrato: quindi anche i nostri inventori «prestati» all'estero finiscono sul nostro score.
In realtà dietro queste statistiche ci sono realtà e legislazioni molto differenti, che certo non agevolano il nostro Paese. L'Italia infatti rispetto ad altri Paesi di pari livello di sviluppo soffre di un forte ritardo nella commercializzazione della ricerca pubblica. Una recente analisi pubblicata da Action, un istituto indipendente composto da professionisti che vogliono rilanciare la competitività del nostro Pese, la stortura sta soprattutto nel cosiddetto «privilegio accademico», il principio che attribuisce al ricercatore universitario la facoltà esclusiva di realizzare l'invenzione e di trarne i relativi profitti. Il ricercatore per trarre profitto dalla sua idea deve vedersela con una burocrazia ostile e con costi che, in base alla complessità dell'invenzione, possono non essere alla portata dello stipendio esiguo di un ricercatore. Servirebbero uffici di trasferimento tecnologico in grado di fornire all'inventore le competenze manageriali e imprenditoriali necessarie alla realizzazione e alla commercializzazione delle innovazioni. Non aiuta nemmeno il fatto che le università abbiano regolamenti molto differenti tra di loro in materia, ciò che tende a scoraggiare le imprese a mettere in campo progetti di collaborazione con le università.
Action Institute propone di dare la titolarità dei diritti derivanti dall'invenzione all'ente pubblico di ricerca, garantendo all'inventore il 50 per cento dei proventi. Basterà per riavere non diciamo Leonardo da Vinci ma almeno Alessandro Volta?
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