Afghanistan in fiamme

Sorrisi e fucili. Sulle strade dell'Afghanistan la messinscena dei talebani

Il giovane talebano che presidia il confine afghano sul Kyber pass sembra uscito da un film sull'orda di Gengis Khan

Sorrisi e fucili. Sulle strade dell'Afghanistan la messinscena dei talebani

Il giovane talebano che presidia il confine afghano sul Kyber pass sembra uscito da un film sull'orda di Gengis Khan. Uniforme a casaccio, bandana in testa, kalashnikov in pugno, non crede ai suoi occhi quando vede spuntare dal cunicolo di lamiere e reticolato costruito dai pachistani uno straniero vestito all'afghana, con tunica e pantaloni a sbuffo carico di attrezzatura e trolley da battaglia. Lo sguardo stupefatto fa capire che è indeciso fra puntarmi il fucile mitragliatore addosso o chiedere aiuto. Subito dopo arrivano in soccorso altri due talebani. Il più giovane, che avrà neanche venti anni, in mimetica e barbetta appena spuntata parlicchia un po' di inglese. L'altro chiede se sono turco, ma sembrano quasi intimoriti davanti al primo giornalista italiano che passa a piedi il confine di Torkham, che divide il Pakistan dalla parte orientale dell'Afghanistan.

Il posto di frontiera è caduto con tutti i mezzi della polizia intatti. L'ufficio del vecchio comandante governativo, utilizzato come sala Vip per gli stranieri che arrivano, è pieno di vasi stracolmi di orribili fiori finti.

Il capoccia talebano fa di tutto per dimostrarsi gentile e disponibile nel nome del nuovo corso che vuole mostrare al resto del mondo il volto «buono» del secondo emirato. Per qualsiasi problema fornisce il suo numero di cellulare e chiama i posti di blocco lungo il tragitto, ordinando di farci passare senza problemi. Sembra quasi un programma Valtur in zona di guerra. Davanti al blindato americano piazzato in mezzo alla strada prima del confine si torna alla realtà con una macchina di lusso e diverse donne all'interno evidentemente terrorizzate, che probabilmente vogliono lasciare il Paese.

L'Afghanistan si presenta assolato, polveroso e dimenticato come sempre, ma il primo tratto di strada è il più pericoloso. «Benvenuto nella provincia di Nangarhar», esulta Suleiman, che è venuto a prendermi da Kabul. In realtà la zona è infestata dall'Isis del Khorasan, la costola afghana del Califfato. Duemila-tremila jihadisti, compresi veterani delle guerre perse in Siria e Iraq, che considerano i talebani fin troppo mollaccioni. A ogni posto di blocco il miliziano di turno chiede se è tutto a posto e se ci sono stati problemi lungo la strada, come se fossero paciosi bobbies inglesi e non combattenti di un'armata Brancaleone.

Lungo la strada verso la capitale gli avamposti di esercito e polizia crollati come un castello di carta sono in gran parte abbandonati, ma puntellati del vessillo bianco con le scritte del Corano in nero dei talebani. Sembra quasi che non sia accaduto nulla e il cambio di regime stia venendo assorbito in un'apparente normalità. Il vero talebano, seppure con il volto nuovo dipinto dal sorriso, lo troviamo all'ennesimo posto di blocco dopo Jalalabad. Mimetica, radio nella tasca con l'antenna che gli arriva oltre la testa e cappellino da preghiera, nota che l'autista è perfettamente rasato e per di più porta degli occhiali da sole un po' troppo occidentali. «Non te lo chiedo come un obbligo, ma per l'Islam bisogna lasciarsi crescere la barba. Altrimenti che esempio diamo ai giovani?», spiega con un sorrisetto di contorno e il kalashnikov a tracolla. Nel primo emirato lo avrebbe tirato giù dalla macchina punendolo con un po' di frustate. Adesso fa il gentile, ma il messaggio è lo stesso. Il poveretto abbozza e una volta ripartito sbotta a denti stretti: «Deciderò io se tenermi la barba oppure no».

Le affascinanti gole di Sorobi potrebbero diventare un'attrazione turistica se non ci fossero ricordi di sangue. Vent'anni fa l'inviata del Corriere della Sera, Maria Grazia Cutuli e altri tre giornalisti furono trucidati dai talebani in fuga dalla capitale del primo emirato martellati dai B 52 americani a uno di questi tornanti.

A Kabul si entra dalla periferia di Pol i Charki, dove lo storico penitenziario è vuoto dopo la fuga di centinaia di prigionieri compresi i terroristi dello Stato islamico avvenuta dopo la conquista della città da parte dei talebani. L'ex zona verde, la cittadella degli occidentali, del comando Nato e delle ambasciate, è ancora presidiata dai tozzi blindati color sabbia made in Usa, ma su ognuno sventola la bandierina bianca e nera dei talebani. Lungo la strada da Jalalabad è ancora intatto qualche sbiadito poster elettorale di Ashraf Ghani, il presidente afghano fuggito in tutta fretta con la cassa abbandonando Kabul ai talebani. Altri poster che esaltano il ruolo delle donne sono deturpati o riempiti di slogan islamici duri e puri.

Nella piazza della capitale dedicata al comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panshir, che combatté contro i sovietici e i talebani, sono state strappate tutte le sue foto che ornavano un monumento. Il figlio con un pugno di uomini resiste ancora nella valle del Panshir a pochi giorni dall'anniversario dei vent'anni della morte del padre.

La prima vittima dell'11 settembre eliminato 48 ore prima da due terroristi di Al Qaida.

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