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Spazzacorrotti incostituzionale. In libertà i politici messi in cella

La Consulta boccia l'applicazione retroattiva. Da alcuni imputati di Mafia Capitale a Formigoni, chi ne può godere

Spazzacorrotti incostituzionale. In libertà i politici messi in cella

S pazzata via la legge spazzacorrotti: almeno nel suo articolo più brutale e più grossolanamente incostituzionale. Da oggi, un numero incalcolabile ma consistente di condannati che nei mesi scorsi erano stati portati in carcere in base alla legge voluta e vantata dal Movimento 5 Stelle dovranno tornare immediatamente in libertà. Tra loro ci sono politici, amministratori locali, imprenditori: il filone più consistente è quello del processo a Mafia Capitale, che nell'ottobre scorso vide una pattuglia di imputati richiusi in carcere poche ore dopo la condanna definitiva. Quella manette, dice la sentenza, erano incostituzionali. Ma a beneficiare della sentenza è anche Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia, attualmente detenuto ai domiciliari: la Procura voleva rispedirlo in cella, adesso il ricorso è impossibile e Formigoni può dormire tranquillo.

Sono le conseguenze della sentenza della Corte Costituzionale che nel primo pomeriggio di ieri ha accolto la questione di legittimità sollevata dall'avvocato Tommaso Bortoluzzi, difensore del geometra veneziano Antonio Bertoncello, condannato per avere distribuito un po' di tangenti a funzionari comunali. L'avvocato contestava in particolare la norma che impediva retroattivamente ai condannati per corruzione e concussione di accedere ai benefici carcerari, tra cui l'affidamento ai servizi sociali: e una norma che peggiora una pena non può essere retroattiva. Il tribunale di Venezia aveva trasmesso gli atti alla Consulta, accusando la «spazzacorrotti» di avere «cambiato le carte in tavola».

Cosa sia accaduto a Roma è un giallo. Infatti appena i giudici veneziani sollevano la questione, la presidenza del Consiglio - attraverso il sottosegretario dell'epoca, il leghista Giancarlo Giorgetti - dà mandato all'Avvocatura dello Stato di costituirsi in giudizio per difendere la legge. E così avviene: il 2 luglio l'Avvocatura deposita l'atto in cui si chiede «che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile e comunque infondata». La firma è degli avvocati Maurizio Greco e Andrea Fedeli.

Ma lunedì scorso, davanti alla Consulta, non si presentano né Greco né Fedeli ma un loro collega, Massimo Giannuzzi, che prende una posizione diametralmente opposta: chiede anche lui che la retroattività della legge venga dichiarata incostituzionale. È il governo che ha cambiato idea, nonostante il ministro della Giustizia sia lo stesso che quella legge ha fortissimamente voluto? Difficile, se non impossibile, che l'Avvocatura abbia fatto di testa sua.

Martedì l'udienza davanti alla Consulta, ieri mattina i giudici si riuniscono in camera di consiglio, alle 13,46 il comunicato: «L'applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene», sancito dall'articolo 25 della Costituzione. Una batosta, per uno dei provvedimenti simbolo del primo governo Conte.

Roberto Formigoni, va detto, sarebbe finito in cella comunque: la sua pena (cinque anni e dieci mesi) era superiore al limite massimo per accedere all'affidamento. La sua ammissione ai domiciliari, dopo sette mesi di carcere, era stata contestata dalla Procura, che invocava proprio la spazzacorrotti. Invece la Corte Costituzionale dice che va bene così.

E, grazie alla stessa sentenza, tra dieci mesi Formigoni potrà tornare libero, affidato ai servizi sociali.

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