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Lo spettro di nuove inchieste dietro l'attacco di Renzi ai pm

L'affondo del premier in Senato è frutto di una strategia chiara: quando sente il fiato sul collo assume un atteggiamento di sfida. Quei presagi di un'estate calda

Lo spettro di nuove inchieste dietro l'attacco di Renzi ai pm

Il giorno dopo il sonante «no alla barbarie giustizialista» conosciuta dal Paese negli ultimi venti anni, frase che di certo ha scosso le coscienze e fatto arricciare il naso a tanta parte della sinistra allevata a pane a manette, gli interrogativi sull'affondo pronunciato da Matteo Renzi nel suo discorso al Senato non mancano. E si muovono su un filo sottile che oscilla tra motivazioni politiche, sospetti di timori giudiziari e aspetti caratteriali e psicologici legati al personaggio.

Sui social network si assiste alla prevedibile spaccatura tra difese d'ufficio della magistratura, applausi renziani e ironie sul neo-garantismo di convenienza. «Bravi a denunciare la barbarie giustizialista quando sono loro a farne le spese. Prima, dal '92 compreso, silenzio. Meglio tardi che mai», scrive su Twitter Pierluigi Battista. Contrapposizioni prevedibili in un Paese che sulla rivendicazione giustizialista ha visto fiorire prima formazioni minori come La Rete e l'Italia dei Valori, poi il Movimento 5 Stelle, capace di raccogliere un quarto dei consensi dell'elettorato. Nei palazzi, invece, ci si interroga sulla genesi di un attacco che come ha giustamente scritto su La Stampa, Fabio Martini, non è figlio di un accesso di ira o una frase dal sen fuggita, ma di una precisa volontà di pronunciare quelle parole.

L'interpretazione più immediata è quella sposata con convinzione dai grillini: Renzi gioca d'anticipo perché sa di novità in arrivo da parte di qualche Procura, ha paura di una offensiva che potrebbe colpirlo. Uno scenario che anche Paolo Mieli a Otto e Mezzo ha in qualche modo evocato prevedendo un'estate rovente di intercettazioni. Di certo, spiegano alcuni parlamentari, per Renzi c'era l'esigenza di strapparsi di dosso la veste mediatica che è stato costretto a indossare nelle ultime settimane: quella macchiata dalle inchieste, dai rapporti impropri con i petrolieri e dai passi falsi comunicativi post-referendum. Ma tra i fattori determinanti per un'uscita che pone il premier nella posizione di chi cerca la polemica e allarga il terreno dello scontro molti individuano il nervosismo legato a una possibile sindrome da accerchiamento e ai fantasmi legati alla costante erosione di consensi, con il Pd al minimo storico dalle Europee. In sostanza, spiegano, è tutto molto «Renzi-style»: quando sente il fiato sul collo gonfia il petto e assume un atteggiamento di sfida.

Solo una volta il premier si era concesso una presa di posizione così netta: nell'agosto scorso quando aveva confezionato la stoccata sul Parlamento che «non è un passacarte delle procure», in merito al caso Azzolini che rischiava di mettere in discussione la sua maggioranza. Nei fatti, però, al di là di alcune uscite molto «popolari» contro i privilegi dei magistrati, interventi di revisione profonda di determinati meccanismi non sono stati fatti, a partire proprio dalle intercettazioni. E il messaggio di fondo relativo alla supremazia della magistratura sulla politica non è stato scalfito. Anzi è stato simbolicamente rafforzato con l'elevazione di un magistrato come Raffaele Cantone a problem solver universale in ogni vicenda di malapolitica o malafinanza. A questo punto per capire se l'affondo renziano resterà una stoccata solitaria bisognerà attendere la gestione dei futuri contraccolpi giudiziari.

Con la prospettiva di un clima sempre più rovente destinato a proiettarsi sulla campagna elettorale per le Amministrative.

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