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Le spie di Pechino in Italia: 11 centri segreti di polizia per "rapire" i cittadini cinesi

L'Italia è stata finora il terreno più fertile al mondo per la politica illegale di controllo, repressione e rimpatrio dei cittadini cinesi fuori dal loro Paese di origine

Le spie di Pechino in Italia: 11 centri segreti di polizia per "rapire" i cittadini cinesi

L'Italia è stata finora il terreno più fertile al mondo per la politica illegale di controllo, repressione e rimpatrio dei cittadini cinesi fuori dal loro Paese di origine. Da Milano a Roma, da Bolzano alla Sicilia, da Venezia a Firenze a Prato, dove vive la terza comunità cinese più grande d'Europa e la più numerosa in Italia, è sul nostro territorio che stanno proliferando le «stazioni di polizia» usate dal regime di Pechino per «molestare, minacciare, intimidire e costringere a tornare in Cina, per essere perseguitati» quei cinesi che vivono all'estero e che il Partito comunista non vuole far sfuggire alla sua lunga mano. La denuncia è dell'Ong spagnola «Safeguard Defenders», che ha individuato 102 di questi uffici nel mondo, istituiti dalle autorità di pubblica sicurezza della Repubblica popolare cinese. Sono 48 in più rispetto ai 54 denunciati da un primo rapporto a gennaio. Ben 11 di questi sono in Italia, la percentuale più alta fra i 53 Stati in cui sono stati rilevati.

Il primo progetto pilota nel nostro Paese, che conta 330mila cinesi sul proprio territorio (Istat 2021), è stato avviato nel 2016 a Milano, dall'agenzia di pubblica sicurezza della città cinese di Wenzhou, seguito da altri a Prato e Parigi, per arrivare a un secondo, lanciato dalle autorità della contea di Qingtian, sempre nel capoluogo lombardo, nel 2018. Ma il fenomeno tocca l'intero stivale, da Bolzano alla Sicilia, della quale non si specificano le località coinvolte.

Nate ufficialmente come «stazioni di servizio», per assolvere compiti amministrativi come la concessione o il rinnovo delle patenti di guida, le «stazioni di polizia» - secondo il report dell'Ong spagnola che così le ha denominate - vengono di fatto utilizzate dal regime di Pechino per «assolvere a uno scopo molto più sinistro e del tutto illegale». In sostanza, «con il coinvolgimento delle associazioni delle città natali» dei cinesi all'estero, gli uffici finiscono per «tracciare e perseguire obiettivi indicati dal locale Ufficio di Pubblica Sicurezza o dalla Procura in Cina», i cui metodi sono spesso orientati a intimorire o punire gli oppositori politici, più che a perseguire i reati. Nessun canale legale e ufficiale, come sarebbe indispensabile per le estradizioni. Sono le minacce il mezzo per «convincere» i concittadini a lasciare il Paese ospite, attacca la Ong, che ha svolto l'indagine. Così è accaduto, per esempio, a un lavoratore cinese del settore agricolo in Italia, accusato di presunta appropriazione indebita in Cina e costretto a rientrare nel Paese d'origine dopo 13 anni trascorsi sul suolo italiano. Di lui si sono perse le tracce una volta messo piede nella Repubblica popolare, denuncia Safeguard Defenders. Nonostante ciò, l'Italia non è fra i 12 Paesi, tra cui Germania, Paesi Bassi e Canada, che hanno avviato indagini, dopo la diffusione del primo report dell'Ong. L'8 dicembre, giovedì, rappresentanti dell'organizzazione testimonieranno in un'audizione pubblica alla Commissione speciale del Parlamento europeo sull'interferenza straniera in tutti i processi democratici nell'Ue.

Ma come si è potuti arrivare a tali abusi sul nostro territorio? Sembra trattarsi del frutto marcio della politica della «persuasione al ritorno» in patria, già parecchio discutibile, adottata da Pechino per dare la caccia ai criminali all'estero. Dall'aprile 2021 al luglio 2022 la polizia cinese ha «persuaso» 230mila presunti fuggitivi a tornare «volontariamente», anche se non tutti, per ammissione di Pechino, erano accusati di qualche crimine. E d'ora in poi una nuova legge, adottata a settembre da Pechino ed entrata in vigore l'1 dicembre, stabilisce la piena extraterritorialità su cittadini cinesi e stranieri, a livello mondiale, per alcuni reati come frode e truffe online. Non è tutto. Il vero problema è che le autorità cinesi negano che «le stazioni» svolgano funzioni diverse dal disbrigo di pratiche amministrative. Ultimo - ma per nulla meno importante - un accordo bilaterale di sicurezza è stato siglato dal nostro governo nel 2015 e ha dato via libera a pattugliamenti di polizia congiunti. È nelle maglie di questa intesa che le autorità cinesi avrebbero trovato il modo di estendere il loro modello da Grande Fratello.

A Milano e Roma, tra il 2016 e il 2018, la nostra polizia ha svolto diversi pattugliamenti con quella cinese, proprio nelle città in cui l'Ong ha trovato prove di un sistema di videosorveglianza diffuso in aree residenziali, installato ufficialmente «per scoraggiare i crimini».

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