Minacce, promesse, vie di fatto. Alla Casa Bianca non ci sarà il tradizionale ricevimento con i campioni Nba ospiti del presidente. Gli ultimi dubbi li ha fugati Donald Trump dal suo account Twitter: «Andare alla Casa Bianca è considerato un grande onore per una squadra campione. Stephen Curry sta esitando. Quindi l'invito è ritirato». Porte chiuse ai Golden State Warriors, che non hanno mai fatto mistero di non amare il tycoon e le sue idee. Ma la scintilla non è mai scoccata proprio con il mondo multirazziale della palla a spicchi che ha favorito e addirittura imposto l'affermazione della figura degli afroamericani nella società fin da prima degli anni '60, quando negli Usa era ancora in vigore la segregazione.
Era stato Kevin Durant, l'altro fenomeno della squadra, a mettere in dubbio la partecipazione. Nei giorni scorsi altri dubbi li ha gettati sul tavolo lo stesso Curry, due volte miglior giocatore della lega, da luglio il più pagato di tutti i tempi (contratto da 201 milioni di dollari in 5 anni). Più che dubbi, macigni: «Non vado alla Casa Bianca, non voglio andarci: non gradisco il comportamento del nostro presidente e nemmeno ciò che dice». Una levata di scudi che ricorda quella delle star di Hollywood, mai parche nell'usare passerelle e premi come postazioni privilegiate da cui sparare a zero contro Trump. Il playmaker ha proseguito: «Se dovessimo votare nello spogliatoio, io opterò per evitare la visita: mi auguro che con un gesto del genere potremo ispirare il cambiamento». The Donald, in un'insolita versione pacata, lo definisce «esitante» nel ritirare l'invito. A scatenare il finimondo arriva LeBron James, giocatore simbolo della Nba, che definisce «straccione» Trump: «Venire alla Casa Bianca è sempre stato un onore, almeno fino a quando sei arrivato tu». Il carico lo mette poi Kobe Bryant, mito fresco di ritiro: «Un presidente il cui nome evoca rabbia e divisione, le cui parole ispirano dissenso e odio, non renderà l'America grande i nuovo».
Sarebbe semplicistico ridurre la questione a uno scontro tra i super pagati cestisti neri e il presidente che sta stravolgendo i canoni della politica a stelle e strisce. Lo stesso allenatore di Golden State, già critico con il Muslim ban, si è schierato sulla barricata. Con il dettaglio che Steve Kerr è bianco e figlio di quel Malcom, presidente dell'università americana a Beirut, ucciso in un attentato jihadista nel 1984. Nulla ha avuto da obiettare nemmeno il presidente della Nba, Adam Silver, un avvocato bianco con un passato in un prestigioso studio legale di New York. «La visita dei campioni Nba alla Casa Bianca mi sta a cuore, è una grande tradizione, ma rispetterei l'intenzione dei giocatori di non parteciparvi». Inutile sottolineare come, negli 8 anni di Barack Obama alla Casa Bianca, nessuna squadra abbia mai saltato l'appuntamento.
E se il basket dimostra di non amarlo, Trump apre un fronte anche con il football. In Alabama si è scagliato contro i giocatori che scelgono di non alzarsi in piedi durante l'esecuzione dell'inno prima delle partite. «È una mancanza di rispetto verso il nostro patrimonio. Non vi piacerebbe vedere il proprietario di una squadra Nfl, quando qualcuno non rispetta la bandiera, dire: Portate quel figlio di p... fuori dal campo ora, è licenziato?». Poi ha invitato gli spettatori a lasciare gli stadi in caso di proteste di questo tipo.
A lanciare lo «sciopero dell'inno» è stato, la scorsa stagione, il quarterback dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick: scelta dettata dai numerosi episodi di violenze degli agenti contro americani di colore. Il suo gesto è stato imitato da molti, ma a lui è costato caro ben prima dell'uscita di Trump. Il regista che solo cinque anni fa sfiorava il Superbowl da quest'anno è senza squadra. Appiedato dalla sua protesta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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