Lo Stato compra una banca È quasi un ritorno al futuro

L'Europa vieta all'azionista pubblico di mantenere la maggioranza più di 18 mesi. Ma la proroga è in vista

Lo Stato compra una banca È quasi un ritorno al futuro

Questa fine del 2016 assomiglia veramente a un anno qualsiasi della Prima repubblica con lo Stato che torna protagonista della scena politica nazionalizzando Mps? La risposta non può che essere negativa anche se le coincidenze sono tante. Il decreto «salvarisparmio» nascerà grazie all'approvazione di una maggioranza più ampia di quella che in Parlamento sostiene il governo Gentiloni in quanto Forza Italia ha deciso di intervenire a favore del salvataggio della terza banca italiana per impedire che tutto il sistema collassasse. Si tratta di uno dei tanti assegni scoperti lasciati in giro da Matteo Renzi che ha lasciato incancrenire la situazione per evitare scelte che impattassero sulla propria popolarità. Silvio Berlusconi non ha fatto altro che dare una mano d'aiuto per risolvere un problema del Paese.

Alla maggioranza parlamentare se ne somma un'altra, altrettanto rilevante che è quella del sistema bancario italiano, nel suo intero favorevole a questa soluzione. Come ben sottolineato dal presidente dell'Associazione bancaria italiana, Antonio Patuelli, in un'intervista al Messaggero. «È necessario che sulle banche sane non vengano più scaricati i problemi di quelle in difficoltà, altrimenti i problemi cresceranno senza soluzione di continuità», ha dichiarato aggiungendo che «in nessun altro settore le aziende sane intervengono per salvare le concorrenti che hanno problemi». Nella Prima repubblica questa sconfessione solenne del Fondo Atlante, caldeggiato dall'ex premier Renzi, non vi sarebbe potuta essere perché le banche erano diretta emanazione della politica.

Altrettanto onestamente bisogna ammettere che da oltre vent'anni, cioè dal salvataggio del Banco di Napoli nel 1995, lo Stato non metteva più il becco nel credito. L'ingresso nell'euro, l'imbellettamento dei conti pubblici con la grande stagione delle privatizzazioni ha di fatto sancito la fine delle partecipazioni statali che ruotavano attorno al grande carrozzone chiamato Iri da cui dipendevano non soltanto Autostrade, Alitalia, Rai, Sip e Finmeccanica, ma anche le tre banche di interesse nazionale come Banco di Roma, Credito Italiano e Comit, a loro volta azioniste di controllo di Mediobanca.

Si tratta di un passo indietro, dunque? No, anche se tutte queste storie, dalla Banca Romana all'Iri per finire con il Monte dei Paschi, hanno tutte un tratto in comune: la commistione tra politica, sistema del credito e un'imprenditoria senza capitali che si appoggiava ora alle une ora alle altre. In fondo, Benito Mussolini aveva pensato l'Iri per spezzare quel circolo vizioso che gli aveva creato notevoli problemi e per togliere qualche pretesto alle grandi famiglie come Agnelli e Pirelli.

Con la Prima repubblica, invece, l'Iri diventò essa stessa parte del processo con cui la politica e gli affari marciavano di pari passo. In fondo, oggi il Monte è stato distrutto degli stessi vizi di ieri: non soltanto la dissennata acquisizione di Antonveneta per la voglia di grandeur degli allora Pds-Ds, ma soprattutto per quei 27 miliardi di sofferenze che sono finanziamenti concessi agli «amici» e agli «amici degli amici».

Può ripetersi la storia? No, perché la Commissione europea impone allo Stato azionista di maggioranza di disfarsi della partecipazione entro un termine massimo di 18 mesi, anche se Padoan & C. stanno negoziando per ottenere già una proroga di almeno due anni. Si tratta veramente di un nuovo inizio che assomiglia tremendamente all'antico.

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