Stato-mafia, Mannino assolto. Altro colpo al teorema dei pm

La Cassazione smonta 30 anni di accuse. L'ex ministro: "Ossessione persecutoria che ha falsato la storia d'Italia"

Stato-mafia, Mannino assolto. Altro colpo al teorema dei pm

Un caso di mitomania giudiziaria, una caccia alle streghe tanto spietata quanto priva di agganci nella realtà. Sul teorema della trattativa Stato-Mafia ieri si abbatte una nuova trave: ed è una trave in grado di far cadere l'intero castello, perché sulla collusione con Cosa Nostra dell'ex ministro Calogero Mannino la Procura di Palermo aveva poggiato per buona parte la sua ricostruzione del patto scellerato che le istituzioni avrebbero stretto con la mafia all'inizio degli anni Novanta. Mannino era stato assolto con formula piena in primo grado, la Procura generale di Palermo non si era arresa e aveva presentato ricorso in appello e poi in Cassazione. E ieri arriva la l'assoluzione. Tre volte su tre: ogni volta che le accuse a Mannino sono state portate davanti a un giudice, si sono sgretolate. Davanti alla Suprema corte anche il rappresentante dell'accusa aveva chiesto l'assoluzione dell'ex ministro, sconfessando platealmente i colleghi palermitani.

Di fronte al crollo della invenzione su cui ha poi costruito la sua carriera politica, l'ex pm Antonio Ingroia ieri dà la colpa al rito abbreviato scelto da Mannino, «i giudici non hanno avuto la possibilità di sentire direttamente le fonti di prova e farsi un'idea». Ma sa che su di lui pesa, definitiva come l'assoluzione dell'ex ministro dc, la responsabilità di quella che ieri Calogero Mannino definisce una «ossessione persecutoria», una «condotta della pubblica accusa scandita da finzioni», «una teoria di processi imbastiti fin dal 1991 lungo la linea dell'assurdo». Accusandomi di essere sceso a patti con i Corleonesi, dice Mannino, «si è tentato di consolidare una narrazione che falsa tutta la storia politica della Sicilia e dell'Italia per due decenni».

La sentenza di assoluzione in appello, quella che la Cassazione ieri conferma e fa propria, non si limitava a riconoscere «l'assoluta estraneità dell'imputato a tutte le condotte contestategli», andava più in là e affermava che se Mannino finì nel mirino della mafia non fu - come sostenevano i pm - per punirlo di non avere mantenuto chissà quali promesse e accordi, ma al contrario «a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio».

Per Mannino è l'atto finale di una «via crucis» (parole sue) durata trent'anni: perché già ben prima del teorema di Ingroia la Procura palermitana aveva cercato di distruggerlo con l'accusa di avere cercato e ottenuto voti dalla mafia. Otto mesi di carcere, quando uscì era l'ombra di se stesso. Anche lì, assoluzione con formula piena. «Oltre che quello della verità storica - dice ora Mannino - il problema sarà anche quello del funzionamento di alcune procure della Repubblica ad opera di alcuni magistrati».

Assolto Mannino, assolto da tempo l'ex ministro Nicola Mancino, del castello della trattativa resta solo la condanna in primo grado di Totò Riina, Marcello Dell'Utri, dei generali Mario Mori e Nicola Subranni e del maggiore Giuseppe De Donno. Il processo d'appello è in corso, e lì si giocano le ultime speranze della Procura di Palermo di non uscire a pezzi da questa vicenda.

Per evitare l'assoluzione degli imputati, i pm hanno portato in aula l'ultimo «pentito» arruolato dal pool antimafia: si chiama Pietro Riggio, ex secondino, ex mafioso. Uno che dice, tanto per dare un'idea, che non fu Giovanni Brusca a fare esplodere la bomba di Capaci. Anche se Brusca pensa di essere stato lui.

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